Judith Butler, La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico, trad. Federico Zappino, Nottetempo, Milano 2020, 299 pagine, €19,00. Una recensione pubblicata in Leggendaria 146
di Elvira Federici
La focalizzazione tematica e la valenza politica della ricerca di Judith Butler, filosofa post-strutturalista, riannoda, riportandole alle domande del presente le questioni lasciate in eredità da Foucault. Butler esplora già da Corpi che contano (1996 ) il campo che il filosofo chiama biopolitica, riferita al potere esercitato sulle vite umane e sulla costruzione delle soggettività individuali attraverso specifiche tecnologie politiche, attinenti alla performatività del discorso come al paradigma della sorveglianza, che si sostituisce in epoca moderna a quello della punizione. Il testo di Butler, comincia in una forma discorsiva e procede per successivi avvicinamenti a ridefinire il rapporto violenza/ nonviolenza alla luce di Benjamin, Fanon, Marx, Freud, Klein e altri, nelle dinamiche psicosociali.
Perché si deve parlare di nonviolenza non come semplicemente critica della violenza? Dove e come si colloca rispetto alla violenza del potere? In che modo rappresenta un vincolo etico-politico?
Prima di considerare che la violenza possa essere una forza legittima nel conseguire una «reale trasformazione sociale ed economica » – cosa che peraltro esclude – Butler si sofferma sui controversi margini dei due significati.
Che cos’è violenza? Si esercita attraverso il linguaggio? Si riduce alle percosse? O copre il vasto insieme dell’economia e del diritto, nella misura in cui queste istituzioni agiscono, appunto, sui corpi? E non sono «dimostrazioni pubbliche, occupazioni, assembramenti, boicottaggi, scioperi, tutte forme di dissenso suscettibili di essere definite “violente”» ?
Questa asimmetria pone già una riserva sulla possibilità di definire univocamente la violenza. Butler ci ricorda, e chiunque lo ha potuto verificare anche negli ultimi tempi, come lo stato americano eserciti la violenza razziale sulle minoranze mentre si rappresenta come custode della sicurezza: l’azione omicida dei poliziotti bianchi verso le persone non bianche viene sempre raccontata come autodifesa; così come lo stato ha il potere di nominare come violenta ogni forma di dissenso e di intervenire secondo questa misura, come che è accaduto a Gezi Park, Istambul, nel 2013. L’ambiguità del margine violenza/nonviolenza non è attribuibile ad una sorta di relativismo del punto di vista ma alle «inversioni performate in modo tattico» e all’aspetto fantasmatico che assume la violenza in relazione al potere che la definisce, così che conta non «cosa significa questa parola bensì cosa fa l’uso di questa parola”» ,
Sulla nonviolenza invece, Butler sa di poter dire di più e senza ambiguità. La nonviolenza non si può intendere come disposizione individuale: essa già implica una relazione sociale preesistente tra chi pratica la nonviolenza e chi la violenza la subisce, sono l’uno parte dell’altro. Le vite infatti sono reciprocamente implicate ed interdipendenti: la violenza si configura quindi come un attacco a questa condizione fondativa delle vite -di tutte le vite, umane e non umane – «e un oltraggio a questi “legami»”.
La nonviolenza è sentimento dei legami in cui la singolarità e le differenze sono possibili grazie all’interdipendenza, in cui il confine del corpo non è un limite ma una soglia. «Il bersaglio della violenza non è in un certo senso anche parte del sé che si difende attraverso quell’atto di violenza?» Il corpo interdipendente, non evoca l’unicità irriducibile ma l’uguaglianza sostanziale delle condizioni di vivibilità.
La nonviolenza quindi non va intesa come passività ma come disfarsi della postura individualistica. Né può applicarsi alla nonviolenza la disposizione altruistica, verso qualcuno che si suppone debole e bisognoso, tutte/tutti essendo dentro questi bisogni, in questa vulnerabilità.
La nonviolenza si interroga su come preservare le vite degli altri, sapendosi implicati nella domanda stessa: un “noi” che separasse da “essi”, rappresentati come quelli da proteggere sarebbe perlomeno paternalista. Rendiamo davvero giustizia a coloro che sono sistematicamente vittima di violenza nel classificarli – loro, separati da no,i – come portatori unici della condizione di vulnerabilità?
La trappola simbolica – e performativa- sarebbe quella della vittimizzazione, della passivizzazione che inchioda alla sventura e rende inimmaginabile l’uscita dalla violenza stessa. Del resto i populismi si ergono surrettiziamente su quelle che classificano come vittime passive adottando schemi securitari, in cui con il pretesto dell’autodifesa si mette in atto la violenza stessa del potere. E’ violenza sistemica la sicurezza e la protezione che i populismi vorrebbero garantire.
Forza, conflitto, violenza non vanno confusi. Superando la cornice diadica dello scontro – il contrapporsi di uno contro uno – la nonviolenza agisce non più sul piano delle scelte individuali ma come forma di decostruzione sociale delle definizioni, fantasmatiche costruite da chi detiene il monopolio del potere. In altre parole: l’esposizione sociale e non violenta di un enunciato politico, performato nelle sue manifestazioni, smantella la definizione di violenza proposta dal potere e delegittima ogni pretesa di autodifesa dello stesso.
« Né la vulnerabilità né la cura possono costituire il fondamento di una politica»: con questo enunciato apparentemente in contraddizione con un cardine del suo pensiero , Butler sottolinea che la vulnerabilità non prescinde dalle condizioni concrete in cui questa si palesa; essa si definisce in contesti strutturali e simbolici affettati dalla disuguaglianza, dove « la violenza avviene nella serie di rifiuti e disconoscimenti politici». L’enunciato di Butler significa, semplicemente, che «la nonviolenza non ha alcun senso se non è accompagnata da un impegno verso l’uguaglianza».
Butler ricorda che in America Latina le donne, le persone femminilizzate, le trans di Ni Una Menos soggetti “vulnerabili”, vite “non degne di lutto”, si sono mobilitate, sottraendosi allo stigma della vittimizzazione e facendosi soggetti politici che denunciano il carattere sistemico della violenza di genere, insito nella disuguaglianza in ogni ambito della società. Si chiede Butler «che cosa accadrebbe se intendessimo la situazione delle persone vulnerabili come una costellazione non solo di vulnerabilità ma anche di rabbia, persistenza e resistenza, che ha luogo in seno alla loro stessa condizione storica?» La capacità di persistenza e resistenza restituisce la forza alle soggettività offese: quelle vite, quelle donne considerate non degne di lutto.
La riflessione su quali vite siano degne di lutto – un’uguaglianza incalcolabile – consente a Butler di osservare da una prospettiva sistemica, il senso profondo della violenza esercitata nelle istituzioni politiche, economiche o simboliche: l’assunto implicito e terrificante che esistano vite “dispensabili”, vite insignificanti, vite invisibili, mentre siamo, come corpi, come viventi di ogni specie, reciprocamente implicati. Mai come in questo momento abbiamo potuto provare quante e quali vite siano di fatto, non degne di lutto nel sistema che ne sancisce l’invisibilità: tra le/gli escluse/i del mondo affluente, tra le persone migranti, quelle vecchie, malate, non produttive.
Il vincolo etico-politico dell’interdipendenza, cui allude Butler agisce sottraendo la nonviolenza alla disposizione individuale e trasformandola in forza di resistenza al potere, per l’uguaglianza del vivente.
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