IL MIO PRIMO LIBRO Nicoletta Vallorani

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Ecco un nuovo appuntamento con la rubrica IL MIO PRIMO LIBRO che vede SIL e LETTERATE MAGAZINE strettamente legate in un’iniziativa curiosa e interessante. Come è andata la storia della pubblicazione del tuo primo libro? Stavolta si tratta di Nicoletta Vallorani

«Scrivendo fantascienza, ero marginale nella letteratura, ed essendo donna, ero marginale nella fantascienza. Però sono in ottima compagnia: la fantascienza, dagli anni ’70 in avanti soprattutto, è stracolma di donne che fanno buona letteratura scrivendo fantascienza. Il mio primo libro, “Il cuore finto di DR”, è stata l’onda che mi ha condotta dove sono ora, senza troppa consapevolezza e con l’idea che non potevo proprio definirmi scrittrice»

Di Nicoletta Vallorani

“Non è una cosa seria”. Questo pensavo. “Non è una cosa seria, ma vediamo se ci riesco”.

Ero a Milano da pochi anni, dopo aver girato l’Italia e qualche altro pezzetto di mondo, senza perdere la sensazione di essere fuori posto ovunque. Inseguivo le orme di altre donne, che mi sembravano tanto più grandi di me, così lontane dalle mie limitate possibilità creative e determinate del credersi/pensarsi/essere/diventare scrittrici. Mi ricordo una “giovane” Atwood che in una intervista, alla mia ingenua domanda su quando avesse deciso di fare la scrittrice, mi aveva guardato come fossi stata un criceto e aveva replicato: “Io sono sempre stata scrittrice”. L’avevo invidiata, e avevo deciso un’altra volta di smettere di provarci: un po’ come quei fumatori incalliti che ogni sigaretta dicono che sia l’ultima.
Insomma, avevo campionato sconfitte, emotive e professionali. Forse avrei fatto meglio a rassegnarmi. O forse avevo ancora, come scrive Irigaray, “troppi pochi gesti per accompagnare” la mia storia, che rimaneva intrappolata tra ambizione e mancanza di coraggio. Facevo tutto timidamente: politica, letteratura, amore. La scuola no: lì ho sempre saputo con chiarezza come portarmi. Si nasce per qualcosa, e io per la scuola sono nata. Studiavo e insegnavo bene, però mi sfuggiva la scrittura pubblicabile, quella interessante e che potesse avere un senso non solo per me stessa (avvitamenti ombelicali, tragedie in un bicchier d’acqua, inutili contorsioni emotive), ma per la comunità invisibile di chi mi somigliava e se ne stava nascosto negli interstizi dell’esistenza. Ora so che cercavo una sintassi per tradurre il mio corpo di donna in un mondo di uomini, per farne parole che conservassero la materialità di un vissuto e di una lotta che apparteneva al mio essere nel margine (della femminilità, della provincia da cui arrivavo, della famiglia che non mi risolvevo ad abbandonare del tutto). Allora la percezione era più confusa. Le parole che Gloria Anzaldua avrebbe usato per descrivere il suo essere frontiera non germogliavano sulla pagina, perché forse il terreno non era quello giusto: lame d’erba che seccavano prima di farsi fiore.
La letteratura di genere – in principio quella che si occupava di mondi inventati e di storie straordinariamente vere proprio perché impossibili – mi teneva con sé almeno come traduttrice e saggista. Ho trovato complici in un mondo maschile, salvata dallo stupore di scoprirmi capace di affrontarlo con passione e ironia. Il fandom – una scombinata congerie di gente competente fino all’ossessione e spaventata dal mondo reale quanto me – mi ha fornito gli strumenti necessari per capire quale era il mio posto. Volevo raccontare storie che interessassero tutte e tutti (in questo ordine non casuale e non consueto): non storie da femmina (per le quali non sono mai stata dotata) e neanche da maschio (qualunque cosa significhi). Storie consapevoli del fatto che si può fare buona letteratura persino in un genere popolare e indipendentemente dal proprio apparato riproduttivo e dalle proprie scelte sessuali.
Facendo questa scelta, sono riuscita a realizzare un prodigio: scrivendo fantascienza, ero marginale nella letteratura, ed essendo donna, ero marginale nella fantascienza. Ho un master in strategie di marketing e sono molto brava a sbaragliarmi da sola. Però sono in ottima compagnia: la fantascienza, dagli anni ’70 in avanti soprattutto, è stracolma di donne che fanno buona letteratura scrivendo fantascienza.
Come che sia, in questa scomoda posizione, ho imparato alcune cose. In dis/ordine:
2. Se vuoi spazio, in nove casi su dieci te lo puoi prendere, ma devi volerlo molto, se sei una donna. Si fa più fatica di quella che fa un uomo, ma si può fare: l’importante è non stare un passo indietro.
4. L’ironia aiuta: forse ho sbagliato a non prendermi mai troppo sul serio, ma da questo autoridimensionamento è germogliato il coraggio di mettermi a scrivere.
2. Il primo romanzo non è mai il primo: è un punto di convergenza temporaneo, subito separato/affiancato/ricapitolato dalle storie successive. I nuovi romanzi non sono figli ma compagni: “Make kins, not babies”, appunto. Per di più, ho sempre avuto problemi con le graduatorie come con le competizioni. Ogni volta che ripenso alla mia carriera, spariglio le carte. E forse non è un caso che io non ricordi mai gli anni di uscita dei miei romanzi (ma wikipedia aiuta)
1. Tutto serve: l’importante è non diventare melanzane estirpando il bambino che ogni adultə ha dentro di sé (Le Guin docet)
Dis/ordine e ironia sono stati ingredienti fondamentali per scrivere quella cosa strana, ingenua, divertita e struggente, tutta da rifare che è “Il cuore finto di DR”, che poi in effetti il premio Urania lo ha vinto (ed è stata una vittoria per tutte noi). Il romanzo è un atto di rivolta recitato col piglio di un fool shakespeariano. Siccome come donna che si occupava di fantascienza era ovvio che non contassi un gran che, mi sono presa il lusso di sparigliare le carte sul tavolo e abbattere alcuni recinti. E siccome i miei amici (perché amici erano e sono) maschi sostenevano con cristallina certezza che nessuna donna avrebbe potuto vincere il Premio Urania, tanto meno con un romanzo ambientato in Italia e con protagonista una donna, allora ho scommesso, certa che non avrei mai vinto. Con questa cristallina sicurezza, sono arrivata dalla prima parola all’ultima divertendomi molto e scoprendo che sì, ero capace di scrivere un romanzo (anche se continuavo a pensare che come lo facevo io non fosse una cosa seria).
Insomma, è così che è andata. Ho scritto il romanzo mentre finivo la mia tesi di dottorato (sulla fantascienza, manco a dirlo) e fabbricavo la mia prima figlia. C’è una consonanza poetica in questo. Il corpo genera una vita e una scrittura, e tutte e due nascono più o meno nello stesso momento. La mia replicante alta, brutta, geniale e un po’ tossica ha gli stessi anni della mia bambina più grande. E tutte e due si portano bene.
Oggi più di allora, si naviga in acque complicate, e per chi arriva dal mare, come me, questa è qualcosa di più di una metafora: la tempesta è una presenza vera, che ti ricorda quanto sia inutile resistere alle onde. Esse vanno, e non sai mai quale è stata la prima a portarti via. Il mio primo libro è stata l’onda che mi ha condotta dove sono ora, senza troppa consapevolezza e con l’idea che insomma, non potevo proprio definirmi scrittrice, e il mio gioco con le parole non era abbastanza per pretendere di essere tale. Negli anni, mi sono fatta più forte, ma ancora penso che ho fatto bene a lasciarmi trascinare dalla casualità: essa mi ha portato nella direzione del genere che ancora pratico, e con immensa soddisfazione. Affrontando un’altra sfida, ovvia per quanto spesso dimenticata: fare letteratura dove nessuno si aspetta che sia. E farlo da donna.

 


 

Lettrice onnivora e docente di Letteratura inglese e angloamericana all’Università degli Studi di Milano, Nicoletta Vallorani ha esordito con Il cuore finto di DR (Premio Urania nel 1993), per poi continuare a scrivere seguendo la doppia pista del noir e della fantascienza. A La fidanzata di Zorro, il primo di quattro romanzi “nomadi” (come tematiche e come editori: Marcos y Marcos, Einaudi, VerdeNero), è stato assegnato il Premio Zanclea nel 1996, e la serie è stata pubblicata in Francia da Gallimard. Le madri cattive (Salani – Petrolio, 201) si è aggiudicato il Premio Maria Teresa Di Lascia nel 2012. L’esplorazione narrativa dei temi sociali che fondano il nostro vivere comune trova casa in Eva (la memoria, la guerra, la cura) e poi prosegue con Avrai i miei occhi, selezione Premio Campiello 2020 (il femminicidio, la coscienza artistica, la solitudine), per concludersi a breve con Noi siamo campo di battaglia (2022), che completa il quadro, aggiunge i colori.

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