Patrizia Cavalli, Shakespeare e la ginnastica della traduzione

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shakespeare-in-scena-d497Grande poesia a Pordenonelegge quest’anno, molti incontri, sia quelli serali alla Loggia del Municipio, letture intense in una atmosfera di raccoglimento e di empatia, sia gli incontri più mirati, pomeridiani, dislocati nei diversi luoghi della manifestazione, tra cui La Libreria della Poesia, un sito dedicato espressamente alla poesia, dove puoi trovare libri fuori catalogo oppure di piccole case editrici che non hanno una vera circolazione.

Gianmario Villalta, poeta di notevole spessore e direttore artistico della manifestazione, cura da sempre questo aspetto, generalmente poco presente negli altri festival nazionali. Si sa, quando l’interesse è forte le cose accadono. Molti autori e autrici di grande valore si sono succeduti in letture, incontri, conversazioni, dibattiti su questioni di critica letteraria e rapporti con il pubblico, contaminazioni tra generi e altro ancora. Moltissimi i nomi di rilevo nel panorama nazionale e internazionale, solo per citarne alcuni voglio ricordare Maurizio Cucchi in una lunga intervista-colloquio con Alberto Bertoni, in occasione dell’uscita dell’Oscar Mondadori che raccoglie le ultime poesie di Cucchi; l’intensa sonorità significante di Mariangela Gualtieri dal Teatro Verdi, vera e propria lettura recitata che ha tenuto ferma e attenta una platea numerosissima per oltre un’ora, con una richiesta di bis, tanta è stata la forza incantatrice delle parole e della voce della poeta; la suggestione delle letture alla Loggia, tra le case medievali e l’oscurità della notte, con le voci di molti autori e autrici di oggi e alcune riviste di poesia che si interrogano sul presente, sullo stato dell’arte.

Tra le numerose suggestioni, e davvero i rimandi meriterebbero una trattazione più ampia, scelgo di parlare di una lezione-esercizio di traduzione, messa in scena da Patrizia Cavalli nel Convento di San Francesco, affollato all’inverosimile.

Cavalli, tra le voci più significative della poesia italiana contemporanea, affronta Shakespeare con un taglio innovativo, contemporaneo, restituendo al drammaturgo inglese (che scrive in versi) la duttilità di una lingua viva, capace di attrarre e commuovere, far ridere ed esprimere tenerezza. L’autrice presenta Shakespeare in scena, libro recentemente uscito per Nottetempo. Raccoglie quattro traduzioni di cui una sola già pubblicata, Sogno di una notte d’estate, le altre inedite. Tutte sono state fatte su commissioni teatrali, ci tiene a sottolineare Cavalli, «non con intento filologico, avendo in mente la pubblicazione in sé e l’editore, ma per un pubblico di attori e il regista che aspettavano i testi per metterli in scena». Questa modalità ha chiari effetti sulla traduzione, la modifica, la inserisce in un tessuto vivo di relazioni. «Il modo di tradurre e anche il risultato è molto diverso a seconda della destinazione del testo (filologica, attenzione alla integrità del testo, con presenza di un editore con cui si è concordato un lavoro, ecc.) rispetto a un’attesa viva, come ai tempi in cui un testo veniva scritto e subito dato agli attori, come fosse un copione che deve arrivare per essere immediatamente rappresentato. Questo rende il modo del tradurre molto più vivo e pieno di nervosismi, fatiche, disperazioni, immaginazioni che non lo stare lì nella dimensione semplicemente editoriale».

Queste traduzioni si collocano nell’arco di trent’anni, la prima tradotta nel 1974, su richiesta di Carlo Cecchi è La Tempesta; la seconda nell’’89, su richiesta del Teatro del Tempo, è Sogno di una notte d’estate, poi pubblicato da Einaudi e ripreso molte volte in diverse rappresentazioni in varie città italiane ed europee, e con gli alunni dell’Accademia di Arte Drammatica. Altro testo, Otello, commissionato da Arturo Cirillo, dopo circa altri dieci anni, poi La dodicesima notte.

Parlando delle sue traduzioni Cavalli mette in luce alcune interessanti riflessioni. Per prima cosa, abbastanza ovvia, il fatto che le traduzioni invecchiano, anche rapidamente, che non si adattano alla lingua di ricezione se non per periodi comprensibilmente delimitati, e anche qui gioca un ruolo determinante la destinazione che il testo possiede. In questo senso lo svecchiamento di un testo tradotto passa anche attraverso modificazioni strutturali notevoli, snellimenti, come i tagli. «Otello ha molti tagli, quasi ottocento versi sono stati tagliati dal regista, secondo me in modo efficace, perché ci sono molti passi in Shakespeare che possono essere tagliati perché non servono più a noi. Noi contemporanei siamo un pubblico attento, che segue tutto, mentre i suoi contemporanei a teatro mangiavano, parlavano, si distraevano e bisognava sempre riportarli a quanto succedeva in scena. Questo voleva dire allungare molto un monologo, fare continui riassunti, riprese. Poi c’era la possibilità di avere in scena molti personaggi, anche trenta, cosa che noi contemporanei non possiamo più avere, quindi certi personaggi non utili, sono stati tolti e diversi monologhi sono stati tagliati. Questo ha dato una efficacia drammatica a mio parere eccezionale».

E qui Cavalli affronta un altro tema di rilievo: le modalità della traduzione che cambiano nel tempo.

«Queste traduzioni protratte nel tempo mi hanno fatto riflettere sul tradurre. Essendo passato molto tempo tra una e l’altra, non solo non sono simili nella forma, ma proprio il mio modo di tradurre è cambiato. All’inizio ero forse più ingenua, meno esperta, conoscevo la lingua inglese meno, infatti la prima traduzione è quella che a me piace di meno, mi annoia un po’. É una traduzione in cui io sono stata molto passiva, ossia ricevevo le suggestioni della lingua inglese facendole entrare nella mia struttura sintattica, grammaticale, semantica con delle movenze che in realtà non erano mie, le accoglievo facendo sì che la stessa struttura della mia lingua si alterasse. Cosa che in realtà, a pensarci bene, penso che sia buona per quanto riguarda il tradurre, accogliere qualcosa che non c’era nella propria lingua, quindi non nel forzare ma nell’accogliere».

Ma per le sue traduzioni da mettere in scena tutto questo è insufficiente, occorre trovare una modalità diversa, più dinamica, più legata alla vita vera che si muove con noi, dentro e fuori di noi.

«Nella traduzione del Sogno, potrei parlare di ‘ginnastica della traduzione’. Ognuna di queste traduzioni ha come un motivo di ginnastica, ginnastica mentale e anche fisica. Il Sogno è formato dalla rima, da una spietata struttura chiusa, sempre ossessivamente tesa nella rima (baciata, alternata), che è formalmente la stessa ossessione dell’amore che è presente nel Sogno, quindi io ero costretta a una ginnastica ritmica assoluta. Otello è invece diverso, ha i toni di voce, i personaggi hanno soprattutto dei toni di voce. Otello è vanaglorioso, retorico, essendo epilettico ha quelle forme esagerate del dire, Desdemona è calata nel sogno, con una lingua sempre collocata in un altrove, Iago lo definisco una specie di romanesco, quel cinismo romano o anche veneziano, come certi veneziani che credono di essere più intelligenti, più furbi, e rivelano ogni bassezza. Mentre La dodicesima notte è stata la più difficile da tradurre, perché da un lato aveva delle zone di grande astrazione, l’amore come astrazione, come idealità, dimensione mai corporale, materiale, dall’altra parte, dove ci sono i personaggi e gli stilemi della commedia, era impossibile tradurli se uno non si metteva fisicamente, con il proprio corpo, in una dimensione in cui si muoveva insieme ai personaggi. E infatti per fare questa traduzione mi sono mossa molto anche io. Ho una casa con molte stanze, una di seguito all’altra. Non facevo altro che passare dallo studio alla cucina e viceversa, e mi dovevo fermare in alcune stanze perché in ognuna di queste io trovavo un sistema fisico di rappresentazione, ossia le parole non erano più una astrazione di tipo letterario, ma avevano, trovavano la posizione di un personaggio, uno che faceva così, un altro che era in una determinata posizione. Dovevo avere corporalmente la posizione dei personaggi. Questo per dire le diverse ‘ginnastiche’ della traduzione».

E conclude: «Credo di essere stata molto fedele al testo con queste traduzioni, cercando di cogliere la lingua di Shakespeare nelle sonorità e sfumature. Le opere sono sempre ricche di sottotesti che vanno compresi per trovare una lingua ricca, trasparente. Shakespeare aveva un pubblico anche popolare che lo andava a sentire e capiva tutto, si divertiva. Certo la lingua non è di oggi e chi lo traduce oggi spesso tende a imitare la lingua antica, dando traduzioni macchinose, artificiose. La sua lingua al suo tempo era una lingua viva, a questa dimensione va riportato.

In realtà le traduzioni di Shakespeare sono fatiche enormi, bisogna misurarsi con i suoni visto che scrive in versi, e il ritmo nell’andamento della voce, gli accenti che rendano il verso necessario».

Per trovare una tale naturalezza alla traduzione occorre anche lavorare con molto artificio, perizia, ripensamenti, prove continue, sensibilità ai suoni e ai ritmi, immaginare la scena, viverla. Occorre che le cose accadano per ritrovare il respiro delle parole. E il respiro lo abbiamo ascoltato tutti quando ha iniziato a leggere, modulando la voce, brani dalle diverse traduzioni, in un crescendo di tensione e rilassamento, con una lingua che ci ha avvolti e coinvolti.

 

 

Patrizia Cavalli, Shakespeare in scena. Quattro traduzioni, Nottetempo, 20 euro

 

 

 

 

 

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