Quando cominciate un nuovo libro che cosa viene per primo: un evento, una scena, uno o dei personnaggi?
“…I’ mi son un, che quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando…”
Le parole di Dante le ho sempre sentite profondamente vere: nessuno scrive per propria volontà. Scrivere narrativa non è una delle tante opzioni possibili, ma una sorta di destino. Se scrivo, vuol dire che sono una persona che può passare cinque, nove, dodici ore al giorno in una stanza ascoltando voci che solo io posso sentire; scovando nel caos della vita nessi che gli altri non vedono, proprio come il personaggio di Edgar A.Poe, capace di individuare la lettera rubata, mentre tutti gli altri la ignorano. Qualcosa – un ‘dono’, secondo Flannery O’ Connor; un ‘daimon’, secondo Rudyard Kipling – spinge chi narra storie a cercare i meccanismi nascosti che muovono il mondo. “Quando il vostro daimon prende il timone, non cercate di pensare coscientemente. Andate alla deriva, ponetevi in attesa e obbedite”, raccomanda Kipling, rivolgendosi ai giovani che stanno cominciando a scrivere. Abbandonarsi, obbedire alle proprie voci interne… Ché, una volta udita la musica segreta dell’ispirazione, diventa impossibile opporre resistenza: è allora che una capisce di essere già sull’altra sponda e che non c’è biglietto di ritorno; capisce di essere troppo emozionalmente strana per svolgere con successo qualsiasi altro lavoro normale. Chi scrive è come un malato incurabile, dice bene Anna Achmatova:
“Viver come posso con questo fardello,
E ancora la chiamano Musa,
Dicono: Tu con lei sul prato…
Dicono: Divino mormorio…
Più violenta della febbre ti dà i brividi,
E di nuovo, per tutto l’anno, non una sillaba.”
Insomma non so bene come succeda, come si metta in moto l’ambaradàn di un libro. So che amo perdere tempo. Spesso gli altri si fanno avanti con la necessità di concludere: “Hai pensato alla storia da scrivere?… Quante pagine hai scritto fino adesso?…”. Come se si potessero misurare le idee. E sempre mi inalbero di fronte a queste domande: come quando mia madre per scoraggiare la mia tendenza a fantasticare chiedeva: “Cosa hai combinato oggi?”, e io sfuggivo da lei con le mie amate sorelle Brönte. Ché le fantasie che precedono la costruzione di un libro (o di un pezzo teatrale, o di una canzone, o di un quadro…) sono un modo per parlare a se stessi, per scoprire qualcosa di se stessi: con le fantasie si ha il coraggio di confessarsi alcune cose, poi si può recuperarle a livello razionale… Questo lasciarsi andare e farsi portare per ore dall’immaginazione può anche essere pericoloso alla lunga… ma io sono spericolata.
Vi sembra che la differenza tra personaggia/gio sia importante? Decisiva? Senza importanza?
Amo molto i personaggi femminili: hanno punti di vista poco esplorati dalla cultura sia del passato che attuale; quindi mi emoziona molto dare vita a una donna.
Altri personaggi che sanno stupirmi (e quindi mi emozionano) sono bambini e anziani.
Se si tratta di un personaggio questo (lui o lei) è legato a un ricordo, a un fatto di cronaca, a un avvenimento storico, personale o collettivo, a un’immagine, a una frase …?
Noi che scriviamo romanzi non sappiamo spiegare completamente i nostri stessi testi. Benché la scrittura di un romanzo sia, come ogni scrittura, un atto della ragione, certe ossessioni personali scivolano verso il testo (o cadono dentro il testo) con un peso che non è quello della logica ma quello della necessità: chi scrive sente o sa che certi personaggi o certe situazioni devono stare lì, però non decifra mai del tutto i motivi per cui qualcosa sta in un certo punto del testo e non in un altro posto o in nessuno. Possono venire in mente giustificazioni a posteriori, però raramente nel momento stesso della scrittura. Se mi fermassi a pensare al perché di ogni riga, resterei paralizzata.
Faccio un esempio. “Perché c’è così tanta Argentina nei suoi testi?” mi chiesero una volta; era il 2000, avevo appena finito di scrivere “La Signora dei porci”, ambientato nel 1500 in Lombardia… epperciò caddi dalle nuvole: fino a allora mai ci avevo fatto caso, mai ci avevo pensato consapevolmente. Eppure in ogni mio libro il Sudamerica aveva una parte importante; addirittura avevo iniziato il mio primo libro, “Di corno o d’oro”, con la parola Tilcara, che è il nome di una città del nordovest argentino… Evidentemente il tema per me era sempre stato scottante: in tutti i miei libri prima di “Quando Dio ballava il tango” ci sono riferimenti all’emigrazione in Sudamerica – perfino nelle parti in corsivo de “La Signora dei porci” – ma era come se non me ne fossi resa conto.
Capita proprio così: sei immersa nella scrittura e non ti rendi conto completamente del tuo lavoro; poi passa il tempo, vai a rileggerti, e impari a guardare il tuo testo come farebbe un estraneo, un qualsiasi lettore. Per questo è difficile rispondere a domande come questa…
Posso dire comunque che sono certe immagini stampate nella memoria a spingermi alla scrittura; oppure la visione di quadri o di fotografie. Non so perché mi succeda. Forse perché la mia mente lavora per accostamenti di immagini, e fin da bambina mi hanno suscitato idee e fermenti le illustrazioni che normalmente vengono considerate assolutamente mancanti di fantasia: le tavole delle enciclopedie mediche, i disegni progettuali delle macchine, le descrizioni degli oggetti fatte dai dizionari… E’ sempre lo spessore degli elementi più banali a eccitare la mia immaginazione e a spingermi a collegamenti inattesi.
E probabilmente non è un caso che io sia nata come pittrice e disegnatrice di fumetti negli anni Settanta… Credo di dovere molto all’attenzione da “pittrice” con cui considero personaggi, ambienti e oggetti. Per esempio, riguardo al romanzo “Milano è una selva oscura”, ho avuto la fortuna di imbattermi in alcune fotografie di Marco Mandibola, che ritraevano un barbone di quegli anni: in piedi su una panchina ad arringare un gruppetto di studenti. L’immagine mi ha incantato: un amore a prima vista. E’ stato come se mi dettasse la storia.
A proposito, proprio in “Milano è una selva oscura”, il protagonista durante un viaggio in metro, fa un gioco guardando le persone che ha intorno, per indovinare dai loro gesti che tipo di vita conducono: “…il Dante si diverte a individuare le smorfie che l’anima disegna sui visi, i gesti abituali che si fissano in tratti del corpo: gli sembra che rivelino indizi sul passato delle persone, le paure e i desideri che covano, un’infanzia non finita, i segni di una malattia” (pag. 56). E’ un gioco che anch’io faccio spesso: lo chiamo “farmi un film”.
Quando il personaggio si è confermato o imposto, lo lasciate continuare il proprio cammino? In altri termini trovate che i personaggi abbiano o no una vita autonoma?
Assolutamente autonoma. Una volta che hai dato al personaggio un aspetto e un carattere, devi lasciarlo agire di conseguenza. Succede come con i figli: ché a un certo punto li devi lasciare andare. I personaggi (come i figli) non possono essere la tua fotocopia.
Vi è capitato di essere state sorprese dal sopraggiungere di un personaggio inaspettato? In che modo il personaggio/la personaggia è una straniera/uno straniero per voi? O al contrario qualcuno/a di estremamente intimo?
Sempre succede di essere sorpresi. Ed è bene che succeda, perché se un personaggio non sorprende te che scrivi, come potrà emozionare chi legge?
Il rapporto tra chi scrive e il suo personaggio si potrebbe forse definire col termine “possessione”: il personaggio devi lasciarlo entrare dentro di te, fare tuoi i suoi pensieri, il suo modo di parlare, scriverti addosso le sue gioie o le sue tristezze. Alla fine hai le spalle così cariche che dopo una giornata di scrittura ti senti addosso una grande stanchezza.
D’altra parte, questa esperienza di lasciare entrare dentro te la vita di un estraneo, ti apre la mente. Il tuo personaggio vive infatti con te per un periodo molto lungo (dura almeno un paio d’anni la stesura di un romanzo), giorno e notte, sempre nei tuoi pensieri. Lo conosci intimamente. E siccome ogni persona che si frequenta a lungo diventa per noi una chiave che apre determinate porte, succede che un personaggio finisca per rivelarti cose di te stessa che neppure sospettavi.
Quale tra personaggi (maschili e femminili) delle vostre letture avete amato di più?
Quelli/quelle che si ribellano quando le varie ortopedie mentali vorrebbero indirizzarli/indirizzarle verso le forche caudine della normalità. Quelli/quelle che nonostante tutto non dimenticano i propri desideri… Nel romanzo che uscirà quest’autunno ho fatto una dedica proprio ai personaggi femminili (dalla Porzia di Shakespeare alla Margherita Nikolaevna di Bulgakov…) che in vario modo mi hanno regalato emozioni quando ho scoperto le loro storie durante la mia adolescenza.
Quali dei vostri personaggi/e amate di più?
Il tipo di personaggio che mi interessa di più narrare ha sempre dei tratti precisi: chi sta ai margini, il deviante, il solitario; chi viene comunemente giudicato un perdente, chi fa scelte di vita rischiose. Tra questi personaggi quelli che amo di più sono: Pulònia di “La Signora dei porci”; Dante.A.Lingéra di “Milano è una selva oscura”; Fenìsia di “La valle delle donne lupo” (in uscita quest’autunno). Non è un caso che tutti e tre siano persone anziane; e la malattia, i momenti del rendiconto con se stessi, il non farsi più illusioni, sono esperienze che mi commuovono profondamente. Forse mi succede perché sono arrivata a un’età (sessant’anni) in cui mi sembra che l’alternarsi delle stagioni e l’invecchiare del corpo siano tutto ciò che esiste, e nel contempo siano un sogno.
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