Qualcosa su di me. Dover indossare un grembiule bianco, mentre i maschi lo avevano nero mi pareva un’ingiustizia. In nome di quel candore, noi bambine dovevamo stare attente a non sporcarci, quindi i nostri giochi dovevano essere più quieti. Tornavo spavaldamente a casa con il grembiule a chiazze. Patii l’ingiustizia del grembiule bianco fino all’ultimo giorno di V elementare, quando con gesto teatrale, gli diedi fuoco all’uscita di scuola, suscitando altre chiacchiere tra i genitori delle “bambine per bene”.
Io non ero una bambina per bene. Intanto ero una delle prime figlie del divorzio. Perciò avevo la lettera scarlatta: a Genova, quartiere borghese, Anni Settanta, «si vedeva che ero diversa, poverina». Poverina? Io ero un diavolo. Diversa? Certamente. Sempre cercato i «diversi come me»: molto più interessanti. Un divorzio anomalo, poi, quello dei miei, con affido ai nonni paterni. Anche i nonni erano diversi. Soprattuto le nonne. Mia nonna guidava la sua auto, fumava, aveva un negozio suo e un suo conto corrente. Mi insegnò poche cose, ma chiare: non dipendere da un uomo; prima il dovere, poi il piacere; solo tu sei responsabile delle tue azioni. Poi, ma solo quando ormai aveva superato i 90 anni, mi disse anche “eh… la carne è debole”.
L’altra nonna, quella materna, aveva avuto una vita melodrammatica, sopra le righe; aveva sposato in seconde nozze un uomo ricco e si era goduta e sperperata tutto, con l’enfasi egoista delle arricchite. Lei mi ha dato un solo consiglio: agli uomini chiedi diamanti. Mai avuto uno. Ma ho cercato, come lei, di godere e sperperare in spensieratezza tutto il bello che la vita mi ha dato. Questi i miei modelli famigliari. Femminismo? Nessuno lo ha mai predicato o praticato consapevolmente in casa mia, sebbene sia una famiglia di fatto matriarcale. A scuola non ne ho mai sentito parlare. Al Liceo Doria negli Anni Ottanta non si parlava di femminismo, né di politica, né di lotte sociali. Solo di nichilismo, furtivamente, tra i banchi. All’Università Cattolica di Milano… ah ah ah. Erano gli anni di Don Giussani. Si parlava di castità. Ero totalmente fuori contesto. Sono finita lì perché c’era un bellissimo corso di Storia del Teatro.
Non ho fatto la guerra, né il dopoguerra o il boom, né il terrorismo, né gli anni di piombo. Sono una ex ragazza degli Anni Ottanta. I più grandi ci disprezzavano. Noi stessi ci disprezzavamo. Le strade per noi erano: carriera o eroina. Qualcuno è riuscito a conciliare le due cose. Come ragazze, alcune già sapevano che da grandi volevano fare «la moglie di uno ricco». Io volevo fare il teatro. Da ragazza ho sempre pensato che il mondo non fosse diviso in uomini e donne, bensì in persone banali o speciali. Non accettavo di essere categorizzata come donna. Sono sempre stata rigorosa con me stessa, sfuggendo ogni opportunità in cui l’essere una graziosa ragazza, mi avrebbe potuto favorire. Quindi, se mi sono innamorata del teatro, non ho voluto fare l’attrice, ma la regista, non l’interprete, ma la creatrice di mondi. E quando mio padre mi disse «Non ce la farai mai», ho risposto «Vedremo» . La competitività per me è stata uno stimolo positivo, perché io competo con me stessa.
Confrontandomi con il mondo del lavoro molto presto, ho preso una bella facciata. Le prime offerte di lavoro di cambio di prestazioni sessuali più o meno esplicite; frasi come «con quel sorriso ottieni ciò che vuoi» mi hanno tolto la voglia di ridere, visto che mi sono sempre ammazzata di lavoro per ottenere risultati. L’atteggiamento di sufficienza da parte degli uomini, quando ricoprivo ruoli di responsabilità. La mia risposta? Lavoro. Lavoro. Lavoro.
Oltre al lavoro, ho avuto una gioventù libera e sconsiderata, ricca di relazioni umane intense e fuori dalle consuetudini con persone le più diverse, che hanno arricchito il mio mondo interiore, anche quando mi hanno fatto male. Non ho mai costruito legami indissolubili nella forma, ma molti permanenti nella sostanza. E la mia libertà, bollata come prepotenza perché «non mi volevo sacrificare come fanno tutte» ha alimentato il mio teatro. Il mondo mi ha sempre scandalizzato. A modo mio sono una moralista. Quindi ho cercato di inventare un mondo alternativo, in teatro, dove il mondo è capovolto e rispecchiato, dove ho creato delle famiglie effimere, ma intense, dove poter essere donna e uomo, adulta e bambina, bianca e nera, delinquente e brava. Dove le differenze di genere sono fluide, perché puoi, anzi devi, essere tutto e niente. Quando sono costretta ad uscire dal teatro, vedo un mondo dove gli uomini hanno tanto bisogno di emanciparsi e le donne di liberarsi dalle voci e degli sguardi maschili che hanno interiorizzato e che le tormentano.
In teatro ho cercato di dare vita ai fantasmi di uomini, ma soprattutto donne che hanno fatto la grande Storia, ma da essa sono stat* schiacciat*. Come per rendere voce e giustizia a eroi ed eroine dimenticat*, in un’epoca, la mia, dove per trovare la vera grande tragedia devi guardare in altri tempi o in altri luoghi. Oggi il nostro mondo è così patinato di piccole nevrosi, così minimalista e omologato, così mercato e disincantato, da non essere teatrale. Io cerco grandi miti altrove. Li ho trovati nella Seconda Guerra Mondiale, nelle “streghe” dei Seicento, negli emigranti italiani verso Lamerica, in Giovanna D’Arco e Gilles de Reis, nei rifugiati politici scappati da altri continenti. E nell’incendio della Twc, a cui ho dedicato Scintille, uno dei miei testi e regie più recenti.
Qualcosa sullo spettacolo. New York, 25 marzo 1911: manca un quarto d’ora alla chiusura della fabbrica T.W.C., produttrice di camicette. Sono al lavoro 600 persone, per lo più giovani immigrate italiane o dall’Europa dell’Est, sfruttate e sottopagate. Una scintilla. In un attimo prende fuoco il grattacielo che ospita la fabbrica. La tragedia si svolge in 18 minuti: 146 morti, quasi tutte ragazze.
I proprietari della fabbrica verranno assolti, nonostante non fossero in atto le più elementari misure di sicurezza. Ma la scintilla della protesta si è sprigionata da questa terribile vicenda, che diventerà uno dei precedenti storici per la Festa della Donna. Molti altri episodi hanno concorso a dar vita all’8 marzo: è certo che non c’ è episodio nella storia delle donne più adatto a segnare un punto di svolta. Quanti di noi oggi ricordano ancora questa storia?
Ho scritto un monologo corale. Non ho chiesto alla protagonista una narrazione, ma una molteplicità di interpretazioni, dove il personaggio di una madre, la Caterina, come una matrioska, contiene ed emana da sé gli altri personaggi, le figlie e un coro di altre figure minori, ma non secondarie. Nessuno è minore in questa storia, scritta per restituire voce alle 146 operaie bruciate alla TWC. Bruciate come le streghe. Bruciate in una grandine di lucide scintille disperse nell’aria. La storia minore delle donne che hanno fatto la Grande Storia, ma sono state dimenticate.
Lo spettacolo è un gesto effimero per ritrovare la memoria di un evento così brutale, assurdo e veloce: 18 minuti per morire 146 persone alla TWC.
Esiste l’elenco delle 146 vittime, con nazionalità ed età di ciascuna. Tante italiane, tutte giovanissime. Tra i nomi ci sono anche Maltese Caterina, 39 anni; Maltese Lucia, 20 anni; Maltese Rosa, 14 anni. Chi erano queste donne? Cosa sognavano quando sono partite alla ricerca della terra promessa?
Madonne addolorate senza assunzione al cielo, ma solo un lavoro a cottimo.
SCINTILLE con Laura Curino testo e regia di Laura Sicignano
ricerca storica Silvia Suriano, musiche originali Edmondo Romano, scene di Laura Benzi, costumi di Maria Grazia Bisio, disegno luci Tiziano Scali.
Produzione Teatro Cargo / Debutto Festival di Borgio Verezzi 2012
PUOI SEGUIRE LA SIL SU:






PASSAPAROLA: