A L’Aquila, nei tre giorni del convegno nazionale SIL (8-10 novembre) Terra e parole, donne riscrivono paesaggi violati, abbiamo vissuto un’esperienza molto particolare. Credo di poterlo affermare a nome di tutte le donne (e dei pochi uomini) che hanno partecipato al convegno, camminato per il centro ancora in macerie, percorso le strade abitate e descritte da Laudomia Bonanni, conosciuto il MuSpAC e altre strutture culturali e associative raccolte nelle loro temporanee sedi di piazza d’Arti.
Particolare per l’alto voltaggio emotivo, combinato con una lucidità concettuale e un’acutezza non comuni, grazie alla capacità di trovare le parole più adatte per trasmettere il senso delle proprie ricerche, delle proprie scritture e dei tracciati biografici.
Gran parte del merito va certamente alla bravura delle scrittrici e studiose che hanno animato il convegno; ma un contributo essenziale, un elemento che tutto ha armonizzato e al tempo stesso ha temperato i nostri strumenti intellettuali rendendoli più incisivi e più pregnanti, è stato regalato dalla partecipazione delle donne che a L’Aquila vivono o lavorano, e dal luogo stesso. La città ha contribuito alle elaborazioni e alle emozioni delle tre giornate come una personaggia cruciale, una comprimaria che ha spinto tutte noi – quelle sul palco, quelle in platea – a non recitare nemmeno per un attimo la propria parte con quel tanto di compiacimento che spesso si accompagna alle nostre performance intellettuali. La “verità” di quel contesto, la sincerità estrema con cui le donne dell’Aquila ci hanno avvicinato e coinvolto, hanno invitato ognuna di noi a mettersi in gioco fino in fondo, a entrare in relazione come raramente capita, anche nei contesti del femminismo in cui siamo abituate a muoverci.
Forse è stata questa una delle ragioni di una tessitura suggestiva fra tutte le relazioni e le comunicazioni offerte nel convegno; una complessità di ragionamenti, esempi e parole-chiave che ha messo in risonanza tutto quello che abbiamo detto e ascoltato: una intelligenza collettiva che ha lavorato tanto sul piano cosciente – nella concezione e preparazione del convegno, che è durata molti mesi sia all’interno del comitato scientifico, sia nella ricezione delle tematiche che ne hanno fatto le relatrici – ma anche su altri livelli più sotterranei, emotivi, poetici, perfino onirici. “Spaesamento, donne e scrittura, paesaggi violati… sono parole che vivono dentro di noi”, ha detto Simona Giannangeli a nome dell’Associazione TerreMutate che ha contribuito in modo fondamentale al convegno, per sottolineare quanto quell’occasione fosse un passo ulteriore verso il “ricollocamento in una seconda vita”, dopo la “cesura temporale e interiore” provocata dal terremoto.
Personalmente, mi ha sorpreso fin dall’inizio il continuo rimando di parole, di rappresentazioni e concetti che andavo facendo fra le relazioni che ascoltavo e le pagine dei romanzi della canadese Anne Michaels, e in particolare del suo La cripta d’inverno, oggetto di un lavoro di gruppo che Nadia Tarantini e io avevamo proposto a molte partecipi lettrici dell’area aquilana, nei mesi precedenti l’appuntamento SIL dei primi di novembre. Le righe che scrivo sono un parziale tentativo di rappresentarne la tessitura complessa, attraverso il mio personale “filo rosso”, la scrittura di Anne Michaels; tralasciando con rammarico tanti contributi e mancando di sottolineare altri agganci fra i molti discorsi proposti.
Fin dall’apertura dei lavori, Paola Inverardi – rettrice dell’Università dell’Aquila che ci ospitava – ha definito quel luogo aperto ai nostri contributi come una “zona franca”, uno spazio di contaminazione positiva; facendomi ricordare che Anne Michaels intende i libri come “safe places”, luoghi sicuri dove poter affrontare questioni che turbano chi scrive e chi legge, e permettersi di lasciarle aperte. Simile all’affermazione di Gisèle Pineau, scrittrice nata in Francia da genitori della Guadalupa, citata da Giovanna Parisse: “Il libro è il solo spazio di libertà”. Una libertà che molte hanno raccontato di aver perso, dopo il terremoto, quando non riuscivano più a leggere neppure una pagina, oppure quando sono state costrette a chiudere i libri amati negli scatoloni di un trasloco incerto nei tempi e nei luoghi, mettendoli per così dire nella propria “cripta d’inverno”, come ha detto Loretta, una delle partecipanti ai gruppi di lettura.
Un vero e proprio “furto della fiducia, del sonno, della lettura”, nella definizione ancora vibrante di rabbia e dolore di Simona Giannangeli.
A catastrofi come questa, è necessario opporre “resilienza”: un’altra parola che ha cucito temi diversi, citata da Serena Guarracino come una delle modalità essenziali per vivere in un pianeta Terra globalmente messo in pericolo, per abitare i luoghi della catastrofe liberando nuove energie, dandosi un “tempo nuovo” e uno spazio in cui le rovine non sono soltanto macerie soffocanti.
Uno sguardo diverso sulle rovine, che permetta di scorgere e poi di attuare restauri che non cancellino la perdita, le tracce del decadimento: lo ha proposto Paola Di Cori, trasponendo i suoi ragionamenti sul restauro di due edifici storici in Argentina, sull’“anarchitettura” di Gordon Matta Clark, sull’installazione Shibboleth di Doris Salcedo alla Tate Modern di Londra, fino a un modo di fare storia dell’esperienza femminista degli anni Settanta in cui sarebbe opportuno “restaurare senza cancellare”, camminando fra i detriti degli anni Settanta e i disastri degli anni più recenti e cercando di valorizzare “le immense potenzialità dei ruderi”, contro l’inganno della “falsa” ricostruzione.
Ruderi parlanti, pietre che mantengono la loro carica comunicativa e sacrale, o l’hanno invece perduta perché violati da interventi umani che non hanno riconosciuto il carico di memoria e di presenza fantasmatica che servono per abitare la realtà anche nel presente? È una fra le domande ricorrenti che sostanziano la narrazione de La cripta d’inverno di Anne Michaels. Più volte, nel romanzo, la competenza teorica e la potenza tecnica degli ingegneri che operano lo spostamento dei templi di Abu Simbel in Egitto o la costruzione del Canale San Lorenzo in Canada, vengono opposte alla conoscenza profonda dei territori posseduta da chi li abita e cerca di difenderne la ricchezza delle stratificazioni naturali e storiche.
In straordinaria sintonia con questa opposizione sta Anna Maria Ortese, ricordata da Monica Farnetti per il suo Corpo celeste, la raccolta di accorati, fulminanti saggi in cui descrive una Terra vulnerabile, dove “l’assoluta santità di un albero e di una bestia”, il loro diritto di “vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo”, sono messi a repentaglio e perfino violati da “una pseudo intelligenza” che “sa di beffa e di fine (…), l’immensa e maligna intelligenza che ormai domina questo caro Corpo celeste”.
Molte, e troppo belle per essere sintetizzate qui in una sola frase, sono le pagine che Anne Michaels dedica ai danni arrecati da quella “maligna intelligenza” ammantata di progresso che infligge ferite irreparabili ai luoghi della Terra e alle creature che li abitano. Dal corso del Nilo a quello del San Lorenzo deviati e imprigionati, dai villaggi nubiani e canadesi sepolti dalle acque dei bacini artificiali alle macerie di Varsavia, dai cimiteri ai luoghi sacri, alle piante e animali sradicati allagati o smarriti, è una lunga e dolente processione di esseri che hanno perduto per sempre la loro appartenenza e devono trasferirsi altrove. Per questo, nel romanzo risuona costante la domanda: dove si radica l’appartenenza? Nel corpo, nella memoria, oppure nel linguaggio? E come si articola questo legame, dove si trapianta questa radice che ci nutre, nell’intreccio fra privato e pubblico, personale e comunitario?
La stessa domanda che si sono poste le persone colpite dal terremoto, in Abruzzo come nel Belice o in Emilia, quando hanno improvvisamente perso le case, i luoghi di lavoro, le piazze, le botteghe, i campi, le chiese, le biblioteche, le scuole…
E Marinella Manicardi, offrendoci la sua vivace performance di lettura e riflessione dalle pagine di Alzando da terra il sole, un’antologia di narrazioni sul e dal terremoto emiliano, parla di “attaccamento forsennato al paesaggio”, da parte di persone che Simona Vinci, nella stessa antologia, racconta così: gente che si sentiva “al sicuro, con i piedi ben piantati nei campi di patate, di barbabietole da zucchero, tra i nostri bovini e i nostri suini, protetti dalla nebbia e dal gelo degli inverni e dall’afa molle delle nostre estati, quando il cielo sopra la testa è una distesa piatta, sbrilluccicante e infinita come il mare. La notte del venti maggio, questa fiducia si è spezzata. Non si è al sicuro da nessuna parte”.
Ma il coraggio con cui Simona mette al mondo e accudisce un figlio proprio durante il terremoto, è della stessa pasta di quella risorsa quasi inesauribile di energia che sgorga dalla permanenza tenace di una comunità, quella che spinge a esibire con fierezza il cartello “SIAMO APERTI” in mezzo ai crolli emiliani.
La stessa fierezza radicata in un comune sentimento di appartenenza, un attaccamento agli oggetti come depositari di tracce vitali e cariche affettive essenziali per sopravvivere, abbiamo trovato in “The Kingdom of Women”, un bel documentario di Dahna Abourahme presentatoci da Marta Cariello. In un intreccio di narrazioni orali, riprese filmiche di luoghi e oggetti, ed espressivi filmati di animazione, sette donne palestinesi raccontano come hanno affrontato l’esilio nel campo profughi di Ein El Hilweh in Libano, tra il 1982 e il 1984, e come sono riuscite concretamente a ricostruire la vita materiale – di fatto, erigendo con le sole loro forze e risorse della casette in muratura, per difendere l’esistenza e la memoria della loro gente dall’invasione israeliana.
Il dolore dello spaesamento, lo smarrimento vissuto da chi perde le proprie radici e tenta poi di trapiantarle altrove, sono i sentimenti che assillano i personaggi di Anne Michaels in entrambi i suoi romanzi. Nella Cripta d’inverno, una delle creature più vibranti di pena e di furia per questa perdita è la vecchia Georgiana Foyle, la cui casa viene bruciata nel corso delle demolizioni dei villaggi, durante la costruzione del Canale San Lorenzo; l’anziana donna, piangendo, rifiuta di far trasferire altrove la tomba del marito, perché con la tomba avrebbero dovuto trasferire ciò che sarebbe impossibile spostare altrove: la sacralità di un luogo, le tracce della memoria, l’esistenza e la presenza dei suoi vivi e dei suoi morti.
Georgiana parla dei legami d’amore che innervano i territori fisici e simbolici dove noi umani abitiamo, delle affinità che ci connettono alla natura in una comune e preziosa vulnerabilità. Soltanto noi umani possediamo i “tristi poteri” del linguaggio (“sad new power”, li definisce, Michaels nel romanzo In fuga) che ci permettono di onorare ciò che è perduto, di costruire zattere di parole per riattraversare il trauma e approdare a nuovi territori. E Laura Pariani, nel suo dialogo con Luisa Ricaldone sulle migrazioni verso i “Mondi di cui non si sa neanche il paesaggio”, in risonanza con altri interventi ha sostenuto che “chi non ha niente, può avere la lingua, in qualsiasi parte del mondo”.
Una lingua che ci permette di testimoniare ciò che va perduto, di ricucire quello che è stato strappato, a volte soltanto di descrivere quello che amiamo e ci è sottratto: come ci ha invitato a fare Anne Michaels, parlandoci via Skype da Toronto nel suo stile poetico e preciso, in cui ogni parola era scelta con delicatezza e trapiantata come un germoglio nel tessuto fitto della sua comunicazione. Invitandoci a guardare il mondo intorno a noi con acutezza e amore, non sottraendoci mai al dolore, al rimpianto, alla disperazione, perché quello che il dolore può rivelarci ha un’essenza veritiera, e dobbiamo fidarci di ciò che viene rivelato da questi sentimenti. In primo luogo, dalla scoperta che quel che perdiamo è intimamente nostro, pena e gratitudine sono intimamente legate, e solo “ciò che è separato può essere riunito”.
Il potere rigenerante della descrizione amorevole dei luoghi amati, insieme alla capacità di far parlare le persone che li hanno abitati e curati, è messa in atto da Carola Susani quando, ormai adulta, torna nella valle del Belice e ne descrive il presente – ancora segnato dalle ferite prodotte dal terremoto del 1968 – cercando di fondere la memoria dei disastri d’allora, e la complessa ricostruzione dei movimenti di lotta comunitaria e d’impegno civile che contrassegnarono la ricostruzione di quell’area siciliana, con i propri personali ricordi d’infanzia. Interrogare le rovine abbandonate, intervistare le persone sopravvissute, rivisitare i nuovi insediamenti, compulsare carte d’archivio e libri d’allora, ma anche portare alla luce e narrare con coraggio il senso di avventura, di libertà, di continuo attraversamento dei confini fra territori dei vivi e mondo dei morti che la bambina Carola e i suoi compagni d’infanzia avevano potuto vivere in quei luoghi e tempi devastati, e tuttavia attraversati dalla potenza di un cambiamento collettivo.
Rispondendo a Gisella Modica che durante il convegno l’ha sollecitata sulla complessa operazione in cui memoria personale e storia pubblica, trauma e riparazione si combinano in un libro originale come L’infanzia è un terremoto, Susani ha suggerito che la cicatrice possa essere anche una porta, un confine permeabile fra il mondo di prima e di poi, che la traumatica esperienza di subire la rovina del proprio ambiente possa permettere, nello scoperchiamento, di trasformare e di reinventare nuovo spazio, nuove storie da vivere.
Citando il “Cretto” di Gibellina, opera gigantesca realizzata circa vent’anni dopo il terremoto da Alberto Burri coprendo con una sorta di crosta di bianche lastre in cemento molti ettari di macerie dell’abitato ripianato dalle ruspe, Susani ha notato che una simile opera d’arte esplicita il trauma dell’ambiente, del paesaggio e delle creature che lo abitavano. E Nicoletta Bardi, chiudendo l’incontro serale con la scrittrice nel restaurato Palazzetto dei Nobili aquilano, conveniva che quella sorta di gigantesca pietra tombale sulle rovine della vecchia Gibellina ha una sua singolare bellezza, che sarebbe necessario apprendere e manifestare in altre esperienze simili, per confrontarci con la “oscurità luminosa della vita”. Un ossimoro pieno di speranza, e una presa d’atto, ribadita in quei tre giorni davvero speciali, di come l’attenzione e la cura, doni della maturità, ci permettano di vivere in mezzo a contrasti apparentemente devastanti, e di riscrivere creativamente anche le vicende di violazione e danneggiamento del mondo.
Dahna Abourahme, The Kingdom of Women. Ein El Hilweh, film prodotto dall’Arab Resource Center for Popular Art, Al-Jana, Libano 2010.
Marinella Manicardi, “Siamo aperti”; Simona Vinci, “Universo liquido”, in AAVV, Alzando da terra il sole, Mondadori, Milano 2012, 15 euro
Anne Michaels, In fuga, Giunti, Firenze 1998, 10,33 euro
Anne Michaels, La cripta d’inverno, Giunti Firenze 2009, 14,50 euro
Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997, 12,50 euro
Laura Pariani, Patagonia blues, Effigie, Milano 2006, 12 euro
Laura Pariani, Il piatto dell’angelo, Giunti, Firenze 2013, 12 euro
Carola Susani, L’infanzia è un terremoto, Laterza, Roma-Bari 2009, 9 euro
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