Trieste Film Festival/ Il fascino dell'Europa dell'Est

PASSAPAROLA:
FacebooktwitterpinterestlinkedinmailFacebooktwitterpinterestlinkedinmail

Locandina-TFF25-1200x1680-1Si è concluso il 22 gennaio il Trieste Film Festival, la principale rassegna italiana di film, documentari, corti, animazioni – più di cento opere – provenienti dall’Europa dell’Est. Da paesi vicini quali Slovenia, Croazia, Serbia, Ungheria, Romania, Polonia, Germania, a quelli più remoti: Kazakistan, Uzbekistan, Georgia, Lituania, Finlandia, Russia. Una miriade di produzioni che portano in Italia cinematografie, paesaggi, storie e sguardi sulla realtà differenti, alcuni radicalmente lontani e drammatici, capaci di incunearsi con efficacia nell’orizzonte permeabile dei nostri sguardi. Un dato interessante è la presenza delle donne: moltissime nei settori dei corti, dei documentari, dell’animazione. Come Mama Europa, della slovena   Petra   Seliškar, che ha inaugurato la sezione documentari; uno sguardo sull’Europa attraverso gli occhi di Terra, bambina di sei anni nata nei Balcani, da padre di origine cubana e macedone e madre slovena. La piccola, non a caso chiamata Terra, impara il significato della parola confini viaggiando con i genitori e disegnando mappe e itinerari sul tavolo. “Sono slovena e il mio compagno e direttore della fotografia è macedone. Da quando la Slovenia è entrata nell’UE e nell’area Schengen la nostra vita nomade è diventata piuttosto complicata. Brand ha bisogno di un visto per ogni paese in cui deve andare, con esclusione di Cuba, il paese di suo padre, e dei paesi balcanici, ma non della Slovenia. Viaggiare con il mio compagno è diventata una lotta senza fine, anche dopo la nascita di Terra, ma questo non Mama-Europa_03ci ha mai impedito di farlo”, dice la regista nella presentazione del film.

“I tre concorsi, lungometraggi, cortometraggi, documentari, che costituiscono il nucleo più corposo del programma, offrono un aggiornamento puntuale sulla produzione più recente della nostra area di riferimento e quest’anno confermano nel complesso la tendenza emersa già in altri festival: la presenza del documentario si va facendo sempre più autorevole, capace  di cogliere la vita e lo spirito del nostro tempo in modo forse più incisivo di quanto sappia fare la fiction di fronte alla criticità sociale e allo spaesamento dell’individuo senza più certezze” dicono i due direttori artistici, Annamaria Percavassi e Fabrizio Grosoli. Proprio il documentario, così frequentato dalle registe, che qui esprimono stili, sperimentazioni e narrazioni diverse, sembra capace di essere un veicolo convincente e nuovo di linguaggi.

Come Die 727 Tage Ohne Karamo, dell’austriaca Anja Salomonowitz, atto di denuncia contro la legge sull’immigrazione, un documento crudo sulle esperienze dei cittadini austriaci che si innamorano di persone che hanno un passaporto non europeo. O Judgment in Hungary, dell’ungherese Eszter Haidú, che ha vinto il premio Cei (Central European Initiative), sul processo a una banda di estrema destra che si è resa SZERELEM PATAKresponsabile, tra il 2008 e il 2009, di una serie di aggressioni razziali e uccisioni di alcuni appartenenti a una comunità Rom.  O il magnifico Szerelem Patak, dell’ungherese Agnes Sós, che ha vinto ex aequo il Premio Alpe Adria Cinema al miglior documentario in concorso. Un film ironico ed empatico, capace di raccontare l’amore in vecchiaia con leggerezza, mostrando le delusioni senza rimpianti, e la forza travolgente delle donne che sanno affrontare il presente della  stagione avanzata continuando a mettersi in gioco.

Anche nei cortometraggi la presenza delle registe è molto numerosa e catalizza l’attenzione del pubblico. Il fascino dei corti è nell’essenzialità, nella capacità di parlare e inventare un mondo mescolando strettamente detto e non detto, immagine e allusione. E’ anche il luogo dove scavare in profondità, nonostante il tempo ridotto. Forse è proprio la brevità una chiave di passaggio che permette gli affondi.

Come lo spaesamento avvertibile in Aral- Tour International della uzbeka Elena Chmelevkaja, con la storia di due ragazze che inseguono l’impossibile  sogno di abbandonare il luogo dove vivono, il lago d’Aral, dove accompagnano turisti europei in cerca di paesaggi estremi, per trasferirsi definitivamente in una città europea agognata come Parigi.  O Ballkoni dell’albanese Lendita Zequiraj, che racconta un Kosovo ingestibile, allucinante esempio di schizofrenia pubblica, a partire da un balcone su cui è seduto pericolosamente un bambino di dieci anni che sputa e irride i passanti dello spazio comune condominiale sottostante. Girato in un unico lungo piano sequenza che inizia al tramonto e termina al crepuscolo svela una situazione claustrofobica, assurda e del tutto irrazionale. O il poetico e struggente Mein Engel della tedesca Miriam Bliese, che racconta lo sradicamento di una madre e una figlia che hanno lasciato la Russia per vivere in Germania cercando un avvenire migliore. Ma la madre non riesce a dimenticare la Russia e la sua carriera di danzatrice classica, mentre la figlia si è dovuta accontentare di insegnare danza a bambine cicciottelle.

 Il sito

 

 

PUOI SEGUIRE LA SIL SU: FacebooktwitteryoutubeFacebooktwitteryoutube
PASSAPAROLA:
FacebooktwitterpinterestlinkedinmailFacebooktwitterpinterestlinkedinmail
Categorie
0 Comments
0 Pings & Trackbacks

Lascia un commento