Cosa sa una figlia di sua madre? Tutto, come tutti i figli, e nello stesso tempo nulla. È questo uno dei fili che si possono seguire nel bel romanzo di Iaia Caputo, Era mia madre. Un titolo che del film da cui si ispira, Era mio padre (2002, regia di Sam Mendes, con Tom Hanks e Paul Newman), evoca sia la dolorosa atmosfera, anche se in un contesto diversissimo, sia l’inesorabile constatazione. Quella donna è lei, quella che mi-ci ha messo al mondo, chiunque sia, anche ben diversa da quello che si pensava o si sarebbe desiderato, E nessun’altra.
E quella madre che Iaia Caputo racconta, non è una che ha fatto dell’essere madre il suo destino. Intellettuale, studiosa, docente universitaria di successo, perfetta padrona di casa amante della bellezza e dell’armonia, la madre è molteplice, una personaggia contemporanea dalle molte sfaccettature che per la figlia Alice è stata una delusione, un incubo. Una che ha scelto di sostenere il marito, universitario di sinistra che si è trovato invischiato nelle vicende di tangentopoli, una situazione con cui la figlia adolescente ha rotto subito, senza pietà. Per nessuno. Non per il padre, che non riconosce come tale, né per la madre, che considera una traditrice, o quasi.
Sono la malattia, un lungo stato di coma, e poi la morte, che costringono Alice a ripensare a chi fosse veramente sua madre. A uscire dal categorico ostracismo della ragazza che al più presto possibile se ne è andata da casa, per andare in Olanda e poi a Parigi a seguire la propria vocazione di danzatrice e coreografa. Una vocazione artistica, scopre, che la madre ha sempre inseguito, senza mai riuscirci, lei fine commentatrice della bellezza del mondo classico. Ci sono delle “lettere alla figlia che parte”, ritrovate da Alice nella casa di Napoli, che la madre le ha scritto per colmare la lunga assenza e il lungo silenzio. Ci sono gli incontri, la scoperta che l’esistenza della madre non era quella perfezione immobile in cui l’aveva cristallizzata, lasciando la casa.
C’è la città, Napoli, uno sfondo vivo e parlante. C’è la nonna, Sulforosa, sarta, bella donna cultrice della bellezza, che riporta alla nipote l’antica saggezza di una generazione che nella vita non ha mai inseguito l’amore, ma il volersi bene. Come dicono le canzoni napoletane, te voglio bene assaje…C’è la cultura, di cui ci si circonda, per mettersi al riparo dalla vita. E c’è la vita, che senza ripari tesse fili tra voci disparate, tra ciò che appare più lontano e si scopre affine.
Ci sono i ricordi, che come la madre scrive ad Alice citando Rilke, non bastano: “Si deve poterli dimenticare quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono”.
C’è il padre, che finalmente è quello che è, uno che ha pagato ed è stato sconfitto. E c’è la madre. Di fronte alla sua morte, chiedendosi cosa si potrebbe scrivere sulla tomba, Alice può arrendersi ai suoi segreti, agli errori, perfino alle scelte sbagliate.
“Perché di tutte le sfumature che di lei avevo scoperto in quei mesi, la moglie di Arturo, l’amante di Stan, la riverita accademica che rimpiangeva di non essere riuscita a diventare un’artista, la donna a cui troppo tardi era stato rivelato che i desideri sono più forti della tua volontà, alla fine preferivo quella che era stata solo per me. Mia madre”.
Una fortuna, a ben pensare, è veramente una fortuna, dopo la definitiva separazione della morte, fare spazio a una madre con cui in vita i conti sono rimasti aperti. È inoltre una lezione di umiltà. Anche una figlia, non può capire tutto. Di sua madre, di suo padre. La loro vita, non la conoscerà mai fino in fondo.
Iaia Caputo, Era mia madre, Feltrinelli Milano 2016, 168 pagine, 15 euro
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