Secondo appuntamento con la rubrica IL MIO PRIMO LIBRO che vede SIL e LETTERATE MAGAZINE strettamente legate in un’iniziativa curiosa e interessante. Come è andata la storia della pubblicazione del tuo primo libro? Per saperne di più leggi l’articolo in cui Silvia Neonato, direttrice di LETTERATE MAGAZINE spiega tutto. Stavolta si tratta di Lia Levi che da bambina iniziò con lo scrivere a se stessa una lettera di autoraccomandazione.
di Lia Levi
La mia è una storia che nasce nel tempo dell’infanzia.
Lo so, rifarsi a questo presunto “paradiso perduto” suona un po’ stucchevole ma, nel mio caso, sono in grado di esibire una prova concreta.
Una lettera.
È andata così. Intorno agli undici anni sembrava che la mia unica occupazione fosse leggere, visto che ero riuscita a ficcare la frequentazione di un libro in ogni pertugio della giornata e, potendo, anche della notte. E se ti ritrovi così profondamente immerso nel mondo della letteratura, è naturale volerne far parte in modo totale.
Che nel mio futuro sarei dovuta diventare una scrittrice l’ho deciso in quel momento. Ed è stato dopo questa irrevocabile decisione che ho preso l’iniziativa di scrivere a me stessa una lettera di “autoraccomandazione”.
«Cara Lia» recitava questa lettera, «ricordati che da grande devi fare la scrittrice», e, dopo altre convincenti parole, la firma «sempre Lia».
Il fatto cronachistico è che questa missiva, vergata in un tempo lontanissimo su un quadernetto dalla copertina nera (e riposta in una busta di stoffa a fiori), per puro caso non è andata perduta. Anzi, mi ha seguita fino all’oggi in tutte le tappe della mia esistenza.
Questa cocciuta sua sopravvivenza io la considero, se pur con inevitabile traccia di scherzo, un fatto simbolico.
Da quel lontano momento non ho mai smesso di pensare e credere con una specie di tranquillità che un giorno avrei fatto la scrittrice per davvero.
Non è che lo immaginassi o lo sognassi. Lo sapevo.
Tornata alla libertà dopo la cupa parentesi di una infanzia di guerra e di persecuzioni razziali, e terminati gli studi fino all’università, è sembrato che la mia vita si orientasse però per altri canali. Il mio approdo nel mondo del lavoro è infatti avvenuto nel campo del giornalismo, prima come collaboratrice saltuaria su diversi periodici e poi come direttrice del mensile di cultura e informazione ebraica Shalom. È stato questo un fondamentale impegno che si è protratto per più di trent’anni.
Tutt’altra attività, dunque, se pur legata alla parola.
E la letteratura, la raccomandazione a me stessa? No, non le avevo affatto dimenticate. Per anni, anzi, ho continuato a buttar giù racconti (e di qualche scivolata nella poesia chi mai è esente?). Ma più che altro scrivevo per me, per mettermi alla prova, per ricercare e costruire un mio stile con destinazione “futuro”.
Solo che quel futuro è arrivato suppergiù verso i miei sessant’anni.
*
Un piccolo passo indietro. L’unico mio scantonamento nel periodo del fervore giornalistico è stato uno sceneggiato radiofonico che la RAI ha accettato e mandato in onda verso la fine degli anni Ottanta.
Niente giornalismo, pura fiction. Lo sforzo principale era inventare e intrecciare trame che seguissero un filo conduttore per ben quaranta puntate.
Per me si trattava di una forse inconscia messa in prova, uno scaldare i muscoli per controllare se mi sentissi davvero in grado di intraprendere un giorno la corsa. Scrivere per te stessa cercando di far affiorare un tuo filone peculiare è importante, ma farlo attraverso dei personaggi d’invenzione è tutt’altra cosa.
Devo dire che il mio radiofonico “Quei fantastici anni difficili” ha funzionato, e si è conquistato anche una replica dopo qualche anno.
L’unico lato ombra di questa esperienza è stato il disagio di mio marito di fronte al fatto che io, direttrice di un giornale culturale “politico”, mi esibissi in quella che considerava una soap opera (non lo era!). Racconto questo risvolto perché ha a che fare con il mio curriculum. Per calmare le acque ho finito per firmare questo mio primo lavoro di narrativa con uno pseudonimo. Banalmente “Franca”, mio secondo nome, e “D’Alessandro”, nome di mio padre. Quindi in nessun eventuale archivio esiste uno sceneggiato (anzi due, ne avevo poi scritto un altro) firmato “Lia Levi”.
Un po’, a pensarci a distanza, mi dispiace. Forse il mio percorso letterario sarebbe incominciato da lì. O forse no.
*
Ma è stato a distanza di non molti anni da quella “prova del nove” che, orfana di una esperienza che comunque ti fa vibrare un bel po’ al tuo interno, ho preso la decisione di rispondere alla mia lettera di allora.
Avrei cominciato a scrivere un vero libro. Vero nel senso che non era più per me stessa, ma destinato (o destinabile) alla pubblicazione.
Mi è venuto spontaneo scegliere come tema la mia infanzia, consapevole del fatto che non si trattava certo di raccontare quello che mi era successo, ma come avevo percepito e fatto mio ciò che era successo.
Ero ancora molto impegnata con il giornale, e il tempo che mi ritrovavo a disposizione era limitato. Un capitolo alla volta quando era possibile… Insomma, malgrado le pagine non fossero poi molte, mi ci è voluto quasi un anno.
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Dopo la parola (immaginaria) “FINE” arriva il momento in cui si apre il problema: l’editore.
Nel campo del giornalismo io e mio marito avevamo intrecciato amicizie anche buone e salde, in quello dell’editoria no.
Partivamo da zero, e anche con la sprovvedutezza di chi da zero comincia. L’unica prassi possibile di allora (eravamo nel 1993) era quella di spedire il dattiloscritto con una breve letterina di autopresentazione a una casa editrice di cui ti eri procurato in qualche modo l’indirizzo.
Devo dire che i rifiuti ricevuti (li conservo in una cartellina) sono stati tutti espressi con parole molto gentili. Niente “cambi mestiere!”, come è capitato, spesso ingiustamente, a certi miei colleghi, ma il risultato era lo stesso. Mio marito, profondamente identificato con il mio scritto ma portatore di un carattere alquanto impaziente, andava bofonchiando nel corridoio: «Io quel libro lo butterei dalla finestra!». Ho risposto solo: «Io no».
E un giorno è arrivata una telefonata.
*
Era di Sandro Ferri, titolare della casa editrice e/o. Quello che ho percepito da voce amichevole era che il mio libro era molto piaciuto in redazione e che erano disposti a pubblicarlo «anche molto presto». (Ho virgolettato “anche molto presto” perché è stata la frase che più ha fatto presa sulla mia memoria.)
Invece di gridare il mio “sììì!” e magari un “grazie”, ho mormorato che avrei dato una risposta il più presto possibile. Ma era solo per riprendere fiato o, come si dice adesso, resettarmi. Di vero c’era che dovevo prima liberarmi di una giovane donna imperiosa autodichiaratasi mio agente, la cui attività era unicamente quella di rimproverarmi per qualunque mossa mettessi in atto.
Il “sì” è arrivato dopo qualche giorno, e tutto è diventato bello. Il fatto che si trattasse di una prima volta ha reso ogni cosa una sorpresa che ti faceva sobbalzare come se ti trovassi agli albori del mondo.
In quegli anni la casa editrice e/o era approdata, con crescente successo, alla grande letteratura dell’Est europeo e aveva cominciato a pubblicare scrittori come Kundera, Hrabal, Brandys, Christa Wolf, per poi estendersi gradatamente ad altre parti del mondo.
Credo che il mio “Una bambina e basta”, uscito nel 1994, sia stato fra i primi della collana Autori italiani. Quasi a sottolineare un felice incontro è poi successo che questo piccolo libro, diventato in un certo modo un classico per le scuole, venga ristampato a ogni autunno da più di venticinque anni.
Certamente fra la prima telefonata e il viaggio nell’etere di un nuovo romanzo esiste tutto il resto: editing, bozze, copertina, lancio, con le eventuali (fortunatamente rare) sgradevolezze che il quotidiano non ha mai intenzione di risparmiarci.
Il cocchio d’oro dove lasciarsi sprofondare non esiste neanche nel mondo dell’editoria, anzi.
O forse sì, esiste. Esiste nell’attimo di quella telefonata.
L’attimo in cui una composta voce terrena, sostituendosi all’aruspice, ti comunica che la tua vita sta per arrischiare un nuovo e forse definitivo volo.
Lia Levi è nata a Pisa il 9 novembre 1931. Con “Una bambina e basta”, nel 1994, ha vinto il Premio Procida-Elsa Morante, opera prima.
Lia è nata a Pisa da una famiglia piemontese di religione ebraica che negli anni ’40 si trasferì a Roma, dove la scrittrice vive tuttora. Dopo l’8 settembre 1943 riuscì a salvarsi dalle deportazioni nascondendosi con le sue sorelle nel collegio romano delle Suore di San Giuseppe di Chambéry.
Sceneggiatrice e giornalista, nel 1967 ha fondato e diretto il mensile di cultura ed informazione ebraica, Shalom.
Ha scritto romanzi per adulti e per ragazzi. Dopo “Una bambina e basta” (uno dei primissimi racconti autobiografici ad affrontare l’impatto traumatico che le persecuzioni ebbero sui bambini ebrei in Italia, anche tra coloro che non furono deportati nei campi di sterminio), ha scritto molti altri romanzi, tra cui “Se va via il re”, e/o 1996, “Il mondo è cominciato da un pezzo, e/o 2005, “Nessun giorno ritorna”, Perrone 2007, “Trilogia della memoria. Tre romanzi all’ombra delle leggi razziali” (in un volume unico pubblicato dalle Edizioni e/o nel 2008), “La notte dell’oblio”, e/o 2012, “Ognuno accanto alla sua notte”, Edizioni e/o, 2021. Ha vinto il Premio Rapallo 2015 (“Il braccialetto”), il Premio Alghero donna 2010 (“La sposa gentile”), il Premio Strega Giovani 2018 (“Questa sera è già domani”). Nel 2001 ha vinto il Premio Grinzane Cavour, sezione saggistica (“Che cos’è l’antisemitismo?”).
Dal 1997 ha cominciato a scrivere libri per bambini, con i quali ha vinto anche alcuni premi tra cui l’Andersen, nel 2005 (con “La portinaia Apollonia”) e il Rodari nel 2008 (“Un cuore da Leone”).
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