Motivazioni conferimento Socia Onoraria a Edith Bruck

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La scrittrice e poeta Edith Bruck, anche sceneggiatrice, regista, ha fondato gran parte della sua opera in prosa e in versi, consistente in oltre venti libri tra romanzi, racconti e sillogi, sul proprio vissuto. Ogni libro ha alla base un segmento di fatti della sua esistenza e si affida a una voce femminile come alter ego per la narrazione.
Ungherese di origine, di un piccolo villaggio da cui viene deportata non ancora adolescente, ha attraversato paesi e idiomi fino ad approdare in Italia, scegliendo l’italiano come la lingua dei suoi scritti. Già da bambina amava vivamente la poesia, la leggeva e la scriveva, e la sera anziché recitare la preghiera recitava versi ripetendo a sua madre “Mamma voglio fare la poeta”: era una bambina ebrea povera e molto sensibile alle iniquità che osservava e sperimentava su se stessa, la povertà, l’ingiustizia, l’emarginazione. E proprio questi aspetti spesso drammatici del suo vissuto sarebbero divenuti temi centrali della sua scrittura. La sua vita, come ci informano i romanzi, attraversa terre e dolori, speranze e lavori fino all’arrivo in Italia, dove la scrittura in prosa in lingua italiana procede con grande intensità e fervore. Questo non la distrae dall’amore per i versi: continua a leggere numerosi autori soprattutto ungheresi e anche a tradurli, talvolta a quattro mani.
Nel suo primo romanzo, Chi ti ama così, edito da Lerici nel 1959 e poi da Marsilio nel 1974, la vicenda è quella della piccola Leila e apre il sipario sulla vita di Edith fino alla sua partenza definitiva da Israele. Nei tre racconti che compongono Due stanze vuote, editi da Marsilio nel 1974 con prefazione di Primo Levi e finalista al Premio Strega nello stesso anno, Judith, una delle protagoniste, è già adulta e per la prima volta torna al piccolo borgo in Ungheria a rivedere la sua casa: è un racconto straordinario, nel quale l’orrore umano del passato converge nel presente.

La domanda costante che attraversa tutta la produzione letteraria di Bruck è “Chi sono? Dov’è il mio posto? Quale la mia lingua? Il mio paese?” Così ne Il pane perduto, uscito nel 2021 per La nave di Teseo, dove la piccola Ditke rivive una rinascita dolorosissima attraverso la scrittura: da una esistenza povera ma sostanzialmente serena ai campi di sterminio, e poi il peregrinare in cerca di una identità, di un luogo, di una lingua. La narrazione segue una scansione temporale, dalla vita nel villaggio ungherese all’arresto, alla prigionia, all’approdo in un nuovo paese. Sballottata da un luogo all’altro, da un lavoro all’altro per sopravvivere, da un paese all’altro per cercare un presente, la storia di Ditke si srotola tra delusioni, divisioni, fughe, e ritorni: “La novità mi aveva scombussolata senza però scalfire l’io profondo, dove continuava a fermentare il mio vissuto sempre presente”.  Fino all’arrivo in Italia, a Napoli, dove comincia a intravvedere un futuro. Poi è la volta di Roma, dove finalmente questa “figlia adottiva dell’Italia” – come lei stessa si definisce – trova serenità e dove avviene l’incontro con Nelo Risi, “l’uomo eletto tra milioni di uomini”, destinato a diventare suo marito.
La scrittura di Edith Bruck rivela anzitutto la scelta della lingua italiana come valore acquisito nella ricerca della propria identità. Scrivere poesia in una lingua che non è la propria lingua madre è una prassi che con poca ricorrenza viene analizzata e discussa, al contrario di quanto si dibatta, giustamente, di traduzione della poesia. Si sperimenta così che cosa significhi non solo scrivere in un’altra lingua, soprattutto in versi, ma muoversi fra due due lingue e, di certo, fra due vite. Di questa natura è lo “strappo” nella produzione artistica che induce l’autrice a uscire da sé stessa, dalla propria identità e affrontare la scrittura in un altro idioma.
Dello scrivere come relazione col corpo e in altra lingua, della sua vasta produzione in italiano in prosa e in poesia parla Edith Bruck stessa e racconta che certe esperienze si possono narrare solo grazie al distacco dato dall’uso di un idioma che non sia il proprio. E ancora: “ho sempre scritto a mano, col corpo tutto, scritto con la pancia, con le ginocchia, la mia poesia è molto corporea, quasi una relazione fisica con la scrittura”. A cominciare dalla prima poesia in italiano, “L’uguaglianza padre!”, nata dal ricordo della madre che nel campo di concentramento le chiedeva di ritrovare il padre.
Il suo orizzonte tematico oggi rispetta e ingloba Edith bambina che guardava al quotidiano e lo scriveva in versi stimolata da ciò che la feriva. Oggi Edith continua a guardare in faccia la realtà, che comprende il presente e il passato, e a farsi trascinare dalla melodia della lingua per mettere in versi ciò che non bisogna dimenticare. E lo fa in italiano, perché – confessa – “la lingua italiana mi rende libera, per me è la salvezza”.

Libertà e salvezza che ispirano anche i modi e le forme dello scrivere del campo di sterminio, ora raccontato nella sua tragica e sconvolgente concretezza, ora rielaborato nella direzione di un linguaggio che esprima l’indicibile, come è il caso del romanzo breve Transit (Bompiani 1978), nel quale la protagonista, non disponendo di parole adeguate per rappresentare l’orrore, sceglie di usare i gesti. Anche i gesti servono per analizzare, capire e fare capire, in uno sforzo di indagine e di decifrazione del mondo concentrazionario, talvolta narrato in presa diretta, talaltra sussunto ed evocato in romanzi di finzione.

Di notevole impatto letterario e umano i momenti in cui l’autrice narra il ritorno a casa: il distacco di coloro dai quali e dalle quali la protagonista e la sorella sopravvissute si aspettano un abbraccio che non arriva, perché fra chi aveva vissuto le loro esperienze e gli altri e le altre “si era aperto un abisso” – scrive – “il nostro avanzo di vita non era che un peso, mentre ci aspettavamo un mondo che ci attendesse, che si inginocchiasse” (Il pane perduto); l’impatto con un mondo dolente e violento insieme, nel quale la fragilità delle donne si trasforma in forza e determinazione per ricominciare (Quanta stella c’è nel cielo, Garzanti 2009). D’altra parte Bruck disse in un’intervista che “non è mai tutto nero nella vita, anche dopo aver visto sette campi in un anno”.

L’opera di Edith Bruck è uno degli esempi più significativi di una scrittura che mira a ricucire, rinsaldare, ricordare, riscrivere la propria identità e la propria storia per testimoniare, per raccontare, esaudendo la preghiera di chi non è tornata/o e che prima di morire le disse: “Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi”. E Ditke parlerà “alla carta”, perché essa “ascolta tutto”.

Proprio in quanto testimone della ricostruzione di sé, della propria storia familiare all’interno della Storia, attraverso un viaggio umano fatto di scrittura e di lingua, affinché la propria storia, simile e pur diversa da quella di milioni di persone, venga ricordata e serva sempre da monito, e per la qualità dei suoi numerosi scritti, la Società Italiana delle Letterate ha il piacere di nominare Edith Bruck Socia Onoraria.

Con  questo omaggio la SIL vuole  ripensare e rimettere in circolo il dono delle parole e del pensiero di  Edith Bruck, inscrivendola nella propria genealogia.

 

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