Ci ha lasciato la poeta Maria Clelia Cardona, amica della SIL e curatrice della rubrica di poesia di Leggendaria. È una grande perdita per la poesia, per noi.
Per ricordarla riproponiamo volentieri la recensione di Elvira Federici al suo poemetto Di fiato e di fuoco (Leggendaria 2017) in cui con una lingua cristallina e un respiro classico fa parlare Penelope di fronte al ritorno di Ulisse.
Ringraziamo la rivista Leggendaria ed Elvira per il pezzo.
La fotografia é ©Dino Ignani.
Maria Clelia Cardona, Di fiato e di Fuoco, Coup d’idée. Edizioni d’arte di Enrica Dorna 2016
Un piccolo libro prezioso di Maria Clelia Cardona, due parti scandite in quindici e diciannove brevi componimenti, cui presiedono rispettivamente Penelope ed Hermes, (Penelope. Il poema del non ritorno e Il riso di Hermes) ove è la sposa di Odisseo che prende la parola e racconta, dal suo lato, la storia che il mito ci ha consegnato. Dal suo lato: di un ritorno che non si compie, mentre Hermes sotto le spoglie di un mercante cretese, le contrappone lo sguardo aereo, il riso lieve e disincantato del dio sulla storia degli umani.
Tuttavia è difficile recensire la poesia: per evidente irrilevanza e non pertinenza di qualsiasi parafrasi, per l’impossibilità di dire con altri mezzi quel che solo se detto in quel modo, con quelle parole, crea un mondo che ci interpella imprevedibilmente, un mondo non saturabile con spiegazioni e racconti. In questo caso poi un cerchio di silenzio si crea intorno ai versi, uno spazio in cui la parola splende del “nitore classico” della lingua e della scena sapientemente costruita di radi gesti, di tempi esatti e delle allusioni vertiginose del mito.
Appare quasi un eccesso dirne qualcosa invece che semplicemente ascoltare, per lasciar arrivare una voce miracolosamente in equilibrio tra cosmogonie dei sentimenti (desiderio, attesa, solitudine, trascorrere del tempo): non saprei se dirli segnali di città umana che brucia/caduta in mano ai nemici, o di mondi/e millenni e stelle in fervore di distruzione e l’evidenza del quotidiano, ossimorico, lavorio del vivente: Poi un analgesico affaccendarsi e riempire i giorni di minuzie imperative.
Il mito si accampa in questi versi ma non può dettarne la misura: attraverso la voce di Penelope deve riconsegnarsi alla fenomenologia asimmetrica della relazione, luogo di ricaduta della realtà e dell’immaginazione; del mito come della storia.
Non i dieci anni di separazione ma quel poco tempo di vicinanza rivela – fa reagire – l’estraneità: ci guardavamo alieni senza vederci.
Non si tratta solo di una reciproca estraneità ma dell’estraneità a se stessi che il tempo compone pazientemente, con lo stillicidio dei cambiamenti: niente restava di quei giovani che eravamo,/come quel tempo fosse di altri.
La trama protettiva del sogno, dell’immaginazione e del desiderio, che si tesse nella mancanza e nell’assenza, non ha più ragione di essere: Credevo l’amore/ libero ormai dal desiderio una storia pronta a rinascere dalla sua fine/in una trama diversa.
Non si sfugge del resto all’asimmetria del desiderio e dello sguardo, delle proporzioni del vivere fra Penelope e Odisseo: Nel piccolo infinito della casa quali confini/la parola, quali il pensiero?/Nascosti infiniti si annidano nella stanza; né all’ambivalenza dell’attesa di un abbandono: Sono anfibia di mente, sono animale/ di terra e di mare, che è come dire/ovunque straniera, ovunque presente.
Ognuno ha la sua parte nel poema e la mia/è sapere obliqui i tuoi sentieri e il mio.
Odisseo e i suoi compagni invece cercano come/branchi affamati imperi, regni, città da depredare.
Al cospetto di Penelope Odisseo tace, si protende vero il mare, sembra esser fatto di nulla: E tu chi hai aspettato per venti anni,/ potnia basilissa? Mi chiede Occhichiaridilupo./Nessuno, gli rispondo e rido.
Eppure è di Penelope l’ombra che al suo fianco si allunga né è possibile dirimere la verità del vivere dall’inganno del sogno: è l’inganno che ami, non il conoscere – /è il mare.
Penelope, non meno che il dio sa, per sua irripetibile esperienza sa, che non ci sono ritorni, dello sposo alla sposa, dei naufraghi alla loro terra, degli eroi alla loro storia, del proprio cuore all’amore.
Le parole sole sembrano restare: chi scriverà la fine del tuo poema? domanda Hermes partendo.
Nessun addio è dovuto a chi resta/ impigliato fra le righe di un poema: la parola continua ad accadere, persino nel disintegrarsi del bisogno di parlarsi
Uno sciame di sillabe evade (…) e ora mi resta questa musica-/niente che valga più la pena di dirti,/affaccendato come sarai a ingannare le ombre.
Penelope, taciturna nella tradizione che ce la tramanda, è qui a presidiare con la parola/musica, con la poesia, il nulla e l’assenza. Come il mito l’inizio.
Ed al mito va incontro Maria Clelia Cardona, interrogandolo con lo sguardo che tesse la palpitante contingenza di Penelope e l’ aerea enigmaticità di Hermes, per consegnarci la stessa domanda sull’ esserci.
PUOI SEGUIRE LA SIL SU: Tuttavia è difficile recensire la poesia: per evidente irrilevanza e non pertinenza di qualsiasi parafrasi, per l’impossibilità di dire con altri mezzi quel che solo se detto in quel modo, con quelle parole, crea un mondo che ci interpella imprevedibilmente, un mondo non saturabile con spiegazioni e racconti. In questo caso poi un cerchio di silenzio si crea intorno ai versi, uno spazio in cui la parola splende del “nitore classico” della lingua e della scena sapientemente costruita di radi gesti, di tempi esatti e delle allusioni vertiginose del mito.
Appare quasi un eccesso dirne qualcosa invece che semplicemente ascoltare, per lasciar arrivare una voce miracolosamente in equilibrio tra cosmogonie dei sentimenti (desiderio, attesa, solitudine, trascorrere del tempo): non saprei se dirli segnali di città umana che brucia/caduta in mano ai nemici, o di mondi/e millenni e stelle in fervore di distruzione e l’evidenza del quotidiano, ossimorico, lavorio del vivente: Poi un analgesico affaccendarsi e riempire i giorni di minuzie imperative.
Il mito si accampa in questi versi ma non può dettarne la misura: attraverso la voce di Penelope deve riconsegnarsi alla fenomenologia asimmetrica della relazione, luogo di ricaduta della realtà e dell’immaginazione; del mito come della storia.
Non i dieci anni di separazione ma quel poco tempo di vicinanza rivela – fa reagire – l’estraneità: ci guardavamo alieni senza vederci.
Non si tratta solo di una reciproca estraneità ma dell’estraneità a se stessi che il tempo compone pazientemente, con lo stillicidio dei cambiamenti: niente restava di quei giovani che eravamo,/come quel tempo fosse di altri.
La trama protettiva del sogno, dell’immaginazione e del desiderio, che si tesse nella mancanza e nell’assenza, non ha più ragione di essere: Credevo l’amore/ libero ormai dal desiderio una storia pronta a rinascere dalla sua fine/in una trama diversa.
Non si sfugge del resto all’asimmetria del desiderio e dello sguardo, delle proporzioni del vivere fra Penelope e Odisseo: Nel piccolo infinito della casa quali confini/la parola, quali il pensiero?/Nascosti infiniti si annidano nella stanza; né all’ambivalenza dell’attesa di un abbandono: Sono anfibia di mente, sono animale/ di terra e di mare, che è come dire/ovunque straniera, ovunque presente.
Ognuno ha la sua parte nel poema e la mia/è sapere obliqui i tuoi sentieri e il mio.
Odisseo e i suoi compagni invece cercano come/branchi affamati imperi, regni, città da depredare.
Al cospetto di Penelope Odisseo tace, si protende vero il mare, sembra esser fatto di nulla: E tu chi hai aspettato per venti anni,/ potnia basilissa? Mi chiede Occhichiaridilupo./Nessuno, gli rispondo e rido.
Eppure è di Penelope l’ombra che al suo fianco si allunga né è possibile dirimere la verità del vivere dall’inganno del sogno: è l’inganno che ami, non il conoscere – /è il mare.
Penelope, non meno che il dio sa, per sua irripetibile esperienza sa, che non ci sono ritorni, dello sposo alla sposa, dei naufraghi alla loro terra, degli eroi alla loro storia, del proprio cuore all’amore.
Le parole sole sembrano restare: chi scriverà la fine del tuo poema? domanda Hermes partendo.
Nessun addio è dovuto a chi resta/ impigliato fra le righe di un poema: la parola continua ad accadere, persino nel disintegrarsi del bisogno di parlarsi
Uno sciame di sillabe evade (…) e ora mi resta questa musica-/niente che valga più la pena di dirti,/affaccendato come sarai a ingannare le ombre.
Penelope, taciturna nella tradizione che ce la tramanda, è qui a presidiare con la parola/musica, con la poesia, il nulla e l’assenza. Come il mito l’inizio.
Ed al mito va incontro Maria Clelia Cardona, interrogandolo con lo sguardo che tesse la palpitante contingenza di Penelope e l’ aerea enigmaticità di Hermes, per consegnarci la stessa domanda sull’ esserci.
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