I sud le mafie/ Ricominciamo dalle storie necessarie

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Quando Rosaria Schifani, giovanissima, invocava il suo dolore e il dolore di noi tutti in una chiesa affollata di fedeli sgomenti all’indomani della strage di Capaci, non sapeva che sarebbe diventata un’icona mediatica. A quell’epoca sembrava facile dare un nome alle cose; non solo a lei, vedova di morto ammazzato, ma all’intero nostro Paese, che aveva fatto della sud-ditanza alla mafia il segno distintivo di qualcosa che solo in parte avevamo imparato a conoscere(o a riconoscere). Rosaria Schifani è esistita davvero. La prova ce l’ha data la televisione conferendo verità a una donna che non aveva bisogno della tivvù per esistere e che proprio perché mostrata nelle televisioni di tutto il mondo è divenuta,nei decenni successivi, un simulacroriconoscibileeppure fragile, proprio come fragile è il solco che separa la rappresentazione della realtà dalla realtà stessa. Inconsapevole vestale, era portatrice d’inganno perché a quell’urloha risposto il silenzio, ai suoi riccioli indomabili e al suo pianto non addomesticato hanno risposto addomesticate bugie e una trappola dai contorni talmente sfumati da essere ancora più dannosa.

Nell’inganno ci siamo cadute tutte. Con Rosaria, andata a crescere suo figlio in una città del nord, anche molte di noi hanno pensato che la salvezza sarebbe passata per un’altra narrazione, un altro vocabolario, un altro linguaggio. Solo adesso riesco a farci i conti. La mia generazione vent’anni fa non aveva ancora vent’anni; ci preparavamo alventennio fatale in cui reale e realtà non sarebbero stati che reale reality, dove non sarebbe servito fare esperienza di ciò che ci succedeva, perché l’esperienza sarebbe stata sostituita dal messaggio mistificatorio del Potere. L’insistenza del messaggio la chiamo sventura, la sottrazione continuativa del dato di realtà la chiamo costruzione del consenso, tutto il resto lo chiamo sonnambulismo, nel senso che i sonnambuli possono essere dannosi per sé e per gli altri.

Questo il contesto in cui ho deciso che avrei fatto la regista. Fare i film non è un diritto, ma un dovere è farli secondo coscienza, proporre narrazioni e personaggi che vengono da altrove – in questo caso altrove assume il senso di una parola concreta, fatta di carne e sangue, materia viva che si impone nel mondo dell’indolenza con la forza dirompente della necessità. Non è stato facile, né è facile, fare i conti con ciò che mi porto dietro e che non ho mai lasciato. È il mio sud implicito, che per troppi anni ha saputo di zavorra, di ingiusto, di ghetto. Ricordo la prima volta che ottenni un appuntamento con un signore importante – era il 2000e desideravo confrontarmi su ciò che sarebbe diventatoil mio film del 2001 L’insonnia di Devi sulle adozioni internazionali – ecco, sentendomi parlare di identità deifigli adottivi, questo signore importante mi disse: «lei signorina, che è siciliana, perché non racconta una bella storia sull’identità siciliana?». Me ne andai con le pive nel sacco pensando che oltre al solito maschilista, era uno che non capiva cos’era la cittadinanza, quella vera, senza confini, né geografici né psicologici. Donna del sud ha significato per me un marchio di appartenenza insopportabile, significava portarmi dietro l’odore appiccicaticcio di un luogo in cui non c’è salvezza perché non c’è condanna e gli avvenimenti passano così, uno dietro l’altro, senza cumularsi, senza sedimentare, ma solo avvenendo e basta. Alcuni critici cinematografici ravvisano nei temi ricorrenti dei miei film – i rifugiati politici, l’infanzia, le adozioni, il lavoro – un sud reiterato che ha a che fare con il senso della precarietà, del viaggio, della mancanza di potere, della fatica e della costruzione del sé, della continua ricerca d’identità. L’incertezza della definizione appartienealsud, così come sono del sud le donne di Capo Verde che ho raccontato nel 2004 stupendomi io stessa per quanta similitudine trovassi tra la loro condizione e la mia.

Che avesse ragione quel signore importante della Rai? Non lo so.

So solo che mai come oggi sento che il sud è la parte per il tutto e se vogliamo davvero provare a capire cosa è successo in questi ultimi vent’anni dobbiamo affrontare ciò che per troppo tempo abbiamo rimossonell’illusionedi esser portatrici di narrazioni globali, come se il sud fosse qualcosa da nascondere sotto il tappeto di uno sviluppo di cui essere degne. Oggi ripartire dal sud significa riconoscere il fallimento di un sistema, quello dell’alta finanza, quello delle grandi imprese e dei grandi interessi economici. Forse per questo non considero affatto del sud e neppure del nord le storie che mi appartengono, i miei amati personaggi, che non sono che persone in cui riconosco lo specchio di qualcosa che trascende il singolo individuo per appartenermi e appartenerci completamente. Sono storie che ci riguardano. Come quella di Anna Maria Scarfò. Anche lei, come Rosaria Schifani, è stata costretta a lasciare la sua terra, la Calabria, e vive in una località del nord di cui non sappiamo il nome, per provarea ricostruirsi una vita. Giovanissima, ha denunciato il gruppo di uomini che per anni l’aveva violentata, tenendola sotto scaccoattraverso terribili abusi psicologici, oltre che sessuali. Questa denuncia le è costato l’isolamento e le ingiurie da parte di tutta una cittadina, capitanata dalle cosiddette donne del sud, le mogli, le madri, le figlie dei violentatori. Questa storia calabrese rivela alla perfezione qualcosa che ha sconfinato sia geograficamente sia antropologicamente: ci siamo sgretolati provocando il declino di una civiltà intera. Dobbiamo riconoscere che il nord si è impoverito, che le mafie sono diventate sistema paese, che l’analfabetismo e la disoccupazione non sonopiù affari del sud, che la senescenza e l’arretratezza di questo paese riguarda tutti. Così come ci riguarda quell’insieme magmatico di bugie di cui non conosciamo i confini perché i confini non esistono più, saltati in aria anche loro con le stragi del ’92 per fare polvere e macerie che in vent’anni hanno costituito la premessa dell’implosione del sistema in cui viviamo.

Raccontare le storie è la gioia di chi fa il mio mestiere, ed è da qui che voglio ripartire. Ricominciamo dalle narrazioni. Raccontiamo la storia di Anna Maria Scarfò e le tante, tantissime storie taciute. Bisogna dire no a un mercato cinematografico asfittico e autocensorio. lo stesso no che Jodie Foster urlava nel film Sotto accusa, un film importante nella Hollywood degli anni ottanta, perché parlò esplicitamente di stupro. Il film è dell’’88; avevo meno di quindici anni, non immaginavo che avrei fatto la regista, e di certo non immaginavo che vent’anni dopo sarebbe stato impossibile in Italia produrre un film per raccontare al mondointero la storia di una ragazzina costretta a subire il processo dalla comunità per “averla data via” facilmente, a tredici anni, al branco che le perpetrava reiterata violenza. Ma io ci credo, e combatto ogni giorno per raccontare le storie che reputo necessarie. Forse in questo si, è vero, lo ammetto, in questo sono donna del sud.

 

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