C’è una famiglia, che, come la città, Palermo, cova nel “ventre molle e deforme” figli, sempre troppi, che scalciano, spingono, ma non riescono ad uscire; c’è una soglia, confine tra il dentro rassicurante e il fuori da scoprire, ma che fa paura, condannando all’attesa, che nell’ultima rappresentazione di Emma Dante, Le sorelle Macaluso, si fa labile margine tra chi vive “sotto” e chi in superficie sopravvive, tra stenti e sopraffazioni.
Nel controluce della scena si confondono, si mischiano, al punto da non distinguerli: sono morti quelli che duellano come pupi, con le spade finte e gli scudi luccicanti, per portarsi via i vivi? O sono vivi che, senza risparmiare colpi, vogliono trattenere in vita i morti? A sipario aperto infatti, quello che si intravede, strizzando gli occhi per abituarsi all’oscurità, è il nero vuoto su cui brillano, come in una notte di temporale, puntini di luce, sfuocati e tremuli, simili a fuochi fatui. Si avvicinano, diventano ombre. Una prende forma, si fa corpo scagliato con violenza, come espulso da un ventre che si contrare nell’ultima doglia, la più violenta, e danza vorticosamente al centro del palcoscenico. Altre figure, compatte, al ritmo ossessivo di una marcia, si materializzano alle spalle della danzatrice: uno, due, tre… forse quattro o forse sette. Sì, ora che sono più vicine, le conto e sono sette, e sono tutte femmine e vestite a lutto. Ne leggo i nomi sul libretto di sala: Gina, Cetty, Maria, Katia, Lia, Pinuccia, Antonella. Sono le sorelle Macaluso.
Da una croce issata in alto da una di loro intuisco che trattasi di un corteo funebre: si consuma infatti il funerale di una di loro, che, capirò in seguito, è Antonella. Ma all’improvviso, dal nero luttuoso, come da un’armatura che si squarcia per un colpo di spada, esplodono sgargianti prendisole e colorati costumi da bagno che abbagliano gli occhi già abituati a tutto quello scuro. Cantano, ridono, tacciono, provocano, lacrimano, fanno pernacchie, mimano giochi dell’infanzia, fanno smorfie come le scimmie, gesticolano fendendo nell’aria colpi con le braccia. Gridando parole in un palermitano sguaiato, e solo a tratti comprensibile, evocano un ricordo d’infanzia: una giornata al mare attesa, desiderata, sognata e finita in tragedia. Si rinfacciano a vicenda colpe e responsabilità; affondano la lama dentro ferite mai cicatrizzate, e lo fanno alla loro maniera, come impone la loro natura eccentrica e sprecona: sopra le righe.
E mai che si individui un colpevole, come sempre impone il copione di Emma Dante, essendo la colpevolezza insita nel loro stesso esistere. Entrano ed escono dal buio della scena. O sostano di colpo, in attesa, sul limitare della scena.
Ed ecco dal buio materializzarsi un’altra figura: è il padre che evoca ricordi della sua vita disgraziata, alla ricerca continua di soldi per sfamare le sette figlie, e lo fa rivolgendosi ad una di loro, pare la più ribelle, Katia, che in stretto dialetto pugliese lo definisce “piezze e’ merda” perché l’ha rinchiusa da piccola in un istituto di correzione. Le sorelle nel frattempo hanno ripreso a disseppellire rancori e rinfacciarsi colpe, accusando una di loro di aver lasciato morire per incuria e disattenzione, il figlio malato di cuore, mandandolo ad una partita di calcio. Mentre la madre, urlando il suo strazio, lo richiama, e il bambino si materializza indossando la maglia di Maradona, una figura d’altri tempi, diafana, misurata nei gesti e nelle parole, appare: è la madre che ricorda alle figlie di rimanere unite, qualunque cosa succeda; poi va verso il marito, lo accarezza e avvinti in un tenero e sensuale abbraccio d’amore, ballano: sono presenze/assenze, sono la memoria del passato, che il richiamo dei vivi materializza creando un legame inestricabile col presente, affinché quest’ultimo possa compiersi.
«Volevo tornare a raccontare l’assenza” dirà Emma Dante in proposito, riferendosi ad una precedente rappresentazione, meno corale, “Vita mia”, dove è in scena il dolore di una madre che non si rassegna e non riesce ad elaborare il lutto del figlio.
I temi cari alla drammaturgia dell’autrice, “archetipi” sono stati definiti, ci sono dunque tutti: c’é Palermo, “ventre che cova”, inesauribile, e che alimenta la fantasia dell’autrice; c’è la famiglia con le sue disperazioni, i suoi legami morbosi; c’è il rito religioso, la cerimonia; c’è la lingua “sgraziata e disgraziata” fatta di ritmo e assonanze, dove sguardo e ammiccamento sono più importanti delle parole; c’è il movimento, il gesto ossessivo; c’è la smorfia scimmiesca, tra umano e animale; c’è la morte, il suo odore; c’è la memoria silenziosa; c’è la pietas, e ci sono le “presenze”, ectoplasma li chiama l’autrice, che ciascuno di noi si porta dentro, attori compresi, che entrano in trance evocandoli sulla scena; e c’è la scena vuota, “senza vie di fuga”; un “altrove” per chi guarda, oppure un labirinto.
Ma stavolta c’è anche qualcosa di inedito, a cui l’autrice non ci ha abituati: c’è nostalgia struggente, e un sottile velo di compassione che si scopre nell’assolo finale di danza della sorella morta, la maggiore, vissuta col desiderio mai realizzato di diventare ballerina, e che coglie gli spettatori impreparati. Un nodo afferra alla gola, al punto che l’applauso tarda ad arrivare.
Le sorelle Macaluso, testo e regia di Emma Dante.
Coprodotto dallo Stabile di Napoli col Theatre National di Bruxelles, Festival d’Avignone e Folkteatern di Goteborg, in collaborazione con la compagnia Sud Costa Occidentale.
In scena Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Daniela Macaluso, Stephanie Taillandier, Serena Barone, Alessandra Fazzino e Leonarda Saffi.
Lettura consigliata: Anna Barsotto La lingua teatrale di Emma Dante, ‘mPalermu, Carnezzeria, Vita mia, ETS, 2009.
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