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La lettura portata avanti dalla nuova letteratura sulle brigantesse è certamente in debito con la pubblicazione de La briganta di Maria Rosa Cutrufelli, pubblicato nel 1990. Cutrufelli, giornalista e scrittrice di successo, è autrice di molti libri, alcuni tradotti in venti lingue diverse, inoltre direttrice e fondatrice di “Tuttestorie”, rivista di “racconti, letture, trame di donne”. Secondo l’autrice è importante “testimoniare, documentare e addirittura provare l’esistenza della donna nella Storia”.
La Donna di Maria Rosa Cutrufelli, non è lo “splendido e ancestrale organismo collettivo”, bensì le varie e “plurali esistenze” finora ignorate. Cutrufelli, nel suo libro La donna che visse per un sogno afferma di sé stessa e di altre autrici: “Ce la metteremo tutta a ripescare quelle donne che ci avevano preceduto nel tempo e ci avevano lasciato un’invisibile eredità di parole, di sogni, di gesti significativi”. L’autrice ritiene di primaria importanza il recupero della storia individuale di alcune donne “per ricostruire la storia delle donne attraverso i secoli e quindi la storia dell’identità femminile”.
La briganta è il suo primo romanzo ed il titolo non è casuale. Infatti, brigante al maschile può avere il suo femminile in briganta. Non è necessario, dunque, l’utilizzo di un’altra desinenza, come in brigantessa. Nonostante la protagonista de La briganta sia un personaggio inventato, la narrazione della sua storia risulta realistica perché fondata su lunghe ricerche da parte dell’autrice, che in questo modo, riempì un vuoto di silenzio sulle donne che hanno partecipato al brigantaggio. Il periodo della post-unificazione, permette alle donne di acquisire potere e di occupare un ruolo straordinariamente importante, finanche a condurre le bande.
Non è casuale che la prima personaggia nata dalla penna di Cutrufelli sia Margherita, ovvero la Briganta. L’autrice arriva a prendere questa decisione dopo un attento lavoro di documentazione negli archivi dello stato italiano. Tra i documenti dei giudizi di quell’epoca, l’autrice scopre i nomi delle donne straordinarie che hanno scelto la lotta armata antiunitaria e per questo sono state sotterrate nell’oblio e nella mistificazione. La storia, scritta e narrata dagli uomini e dai vincitori, distorce l’essenza del brigantaggio femminile. Così, non sorprende che sia un romanzo realista del 1990 a raccontare il coraggio e la dignità di queste donne, attraverso un’autobiografia fittizia.
1. Nella sua vita di donna scrittrice che cosa fa nascere l’esigenza di scrivere La briganta?
Non è un caso che La briganta sia stato il primo romanzo che ho scritto: nasce dal fatto di essere – e sentirmi – duplice, donna e meridionale. Sono due stati d’essere che mi hanno formata, hanno formato la mia coscienza, persino direi il mio carattere. É come un doppio marchio, che in me ha prodotto una doppia coscienza. Essere donna ha significato essere cosciente della posizione mia e delle altre donne nel mondo, che spesso è una posizione necessariamente di conflitto, proprio perché essere donna è una difficoltà in più, oltre che un orgoglio in più. Per quanto mi riguarda, ho la coscienza di questa maggiore difficoltà, ma so che senza l’orgoglio di essere donna si vive male. La stessa cosa avviene rispetto all’essere – e sentirsi – meridionale, che significa comunque essere, metaforicamente, ai margini dell’impero, non al centro, e dunque trovarsi in una situazione di maggiore fragilità. Che tuttavia presenta anche dei vantaggi. Secondo Salman Rushdie, l’uomo meridionale ha in effetti una marcia in più, perché conosce sia il centro dell’impero che i margini e dunque vede tutto. Chi sta al centro ha, invece, una visione limitata perché non riesce a vederli, i margini. L’uomo meridionale ha insomma una conoscenza in più. Ma la donna meridionale ha uno sguardo ancora più potente perché può raccontare cosa significa essere, al tempo stesso, donna e meridionale. La briganta è nata proprio da qui, dall’esigenza di raccontare la storia d’Italia e l’epopea dell’Unità da un punto di vista doppiamente eccentrico: femminile e meridionale.
2. Qual è il pensiero, o il ragionamento, che l’ha condotta, in tema di linguistica di genere, a pensare che fosse un risarcimento più adeguato verso queste donne, definire Margherita attraverso il nome di briganta, invece di brigantessa? Le va di indicarmi due o tre punti salienti della sua ricerca storica e d’archivio, necessari alla stesura de La Briganta?
Sono andata a leggermi i processi dell’epoca che sono depositati nell’Archivio di Stato. In questi documenti non si usa la parola brigantessa, ma briganta. Nell’italiano della seconda metà dell’Ottocento esisteva proprio questa parola: briganta. Al plurale si diceva brigantesse ma al singolare no, era normale dire ‘briganta’, e quindi io l’ho assunta, anche perché il suo suono mi piace di più. Parole che oggi con una sensibilità moderna ci sembrano nuove, in realtà sono vecchie e si usavano correntemente, senza porsi il problema se il suffisso ‘essa’ fosse o no dispregiativo. Si diceva ‘briganta’, ma non si pensava al politicamente corretto. C’è una frase che io riporto nel libro, quando la Bizzarra dice: “Io sono briganta, non donna di brigante”, che non è frutto della mia fantasia. Questa frase l’ho presa dalla trascrizione di un processo fatto ad una contadina calabrese accusata di brigantaggio. Io me ne sono appropriata, e un critico una volta ha scritto che lì si sentiva il mio femminismo e invece è nella sua osservazione che si sente l’ignoranza e il pregiudizio. É anche vero che ci vuole un occhio femminista per dare a questa frase, trovata in mezzo a mille altre, il risalto che le conviene, il risalto che è giusto darle. Io penso che se l’avesse letta qualcun altro forse non l’avrebbe neanche segnata nei suoi appunti, perché non avrebbe capito quanto orgoglio di donna contiene. Leggere gli atti dei processi non è stato semplice, perché al tempo non esisteva la macchina da scrivere, tutto scritto a mano, con una grafia dell’epoca, e quindi leggere questi documenti è stato un lavoro molto lungo. Ma ne è valsa la pena, anche solo per quella frase.
3. Il modo in cui il marito e il fratello sono due facce della stessa medaglia, ovvero, un patriarcato violento e “consapevole”, e quello simbolico e derivato dall’incomprensione della necessità della libertà della sorella, rappresentano semplicemente due profili psicologici diversi o la speranza di più margine di crescita e comprensione per il secondo dei due? Sono due forme di violenza senza speranza oppure la seconda è anche l’esempio della stragrande maggioranza dei maschi di oggi, ai quali se ci impegniamo a fornire più strumenti di comprensione, possono diventare degli alleati?
É senz’altro più facile ribellarsi a un patriarcato violento. Un patriarcato tollerante può rivelarsi più subdolo, ti prende con la dolcezza e quindi ti fa sentire in colpa se ti ribelli. La faccia tollerante (paternalista) del patriarcato è più complicata da affrontare, perché richiede lo spogliarsi anche dai sensi di colpa, mentre, tutto sommato, ti senti giustificata se rispondi alla violenza con la violenza. Una violenza simbolica, più sottile, è più facile introiettarla e più difficile da smascherare, diventa più arduo trovare delle forme di libertà da contrapporre a questo amorevole e protettivo dominio.
4. A 31 anni dalla scrittura della Briganta, in un panorama letterario che ha accolto anche numericamente più voci femminili ed è più educato a questa prospettiva di genere, viene maggiormente compreso un personaggio come quello della briganta?
Penso di sì, siamo più abituati oggi a vedere la ribellione delle donne, non è una cosa che fa scandalo. Possiamo dare dei giudizi positivi o negativi, accettare o rifiutare questa ribellione, però tutti hanno visto che c’è una libertà femminile e che questo significa rispondere alle ingiustizie. Insomma, le donne non tacciono più, perciò la ribelle è una figura meno scandalosa. Io penso che La briganta risuoni molto dentro l’animo delle donne, mentre gli uomini fanno più fatica ancora oggi ad accettarla. Ho l’impressione, in sostanza, che gli uomini facciano meno fatica ad accettare una figura femminile moderna o contemporanea che si ribella, ma che facciano ancora fatica ad accettare una figura femminile del passato che si pone contro le convenzioni che toccano il genere. Fanno più fatica a credere che una donna così possa essere vissuta realmente.
É una nicchia accademica o nella società effettivamente ci sono più strumenti per comprenderla?
Penso forse più a una nicchia, a persone che come il critico cui accennavo prima, davanti alla frase della Bizzarra (“Io sono briganta, non donna di brigante”) immaginano una forzatura dell’autrice. Invece è stato il mio occhio a vedere questa frase in mezzo a mille altre e così l’ho tirata fuori, mentre ancora oggi per gli uomini è difficile ‘vedere’ e tirare fuori frasi come quella. Non fanno fatica a vederle nel presente, ma nel passato sì: è come se in qualche modo noi donne ancora dovessimo rivendicare un passato. Ma in realtà non siamo così nuove come ci vogliono far credere, in realtà abbiamo un passato, abbiamo una genealogia. C’è un meraviglioso racconto Le donne muoiono di Anna Banti, che cito sempre. È un racconto di fantascienza nel senso che è ambientato nel 2600, in un lontano futuro in cui gli uomini non muoiono, ma le donne sì. In che senso le donne muoiono e gli uomini no? Perché gli uomini, lei dice, hanno una seconda memoria, questa seconda memoria è quella che gli uomini trasmettono agli altri uomini, ai figli maschi, mentre le donne non hanno questa seconda memoria da trasmettere alle figlie femmine. Quindi le donne muoiono ma gli uomini no, perché continuano a vivere nella memoria di chi viene dopo di loro. Questo è quanto accade ancora, un po’ meno ma continua ad accadere, perché noi donne non trasmettiamo a sufficienza la nostra seconda memoria. E tuttavia nell’Ottocento, al momento dell’Unità d’Italia, già c’è una contadina calabrese che al suo processo dice: Io sono briganta, non donna di brigante. Questa è la seconda memoria di cui ci dobbiamo riappropriare per poter vivere, per non morire come donne.
A questo proposito, nei miei ultimi appunti ho scritto: La grande necessità di riscatto che mi accompagna fin dalla nascita, è molto più antica di me.
Questo mi è accaduto per la stesura de Il giudice delle donne che parla di un gruppo di maestre marchigiane, che nel 1906, aderendo ad un invito di Maria Montessori, fanno una battaglia per il diritto di voto, usando un espediente giuridico. Lo fanno in contemporanea tante altre donne, tante maestre in Italia, ma loro sono le uniche a vincere, grazie alla sentenza di un giudice. E per un anno, finché la corte di cassazione non esprime un giudizio negativo, hanno il diritto di voto. Sono le prime elettrici italiane, anche se ben pochi lo sanno. Quando è uscito il libro, mi ha telefonato per intervistarmi una giornalista marchigiana, e mi ha detto: ma lo sai che nella mia famiglia si racconta questa storia, che mia nonna si legò ad un lampione del nostro paese per rivendicare il diritto al voto? Se non me lo avesse detto questa giornalista, non l’avrei saputo nemmeno io. Purtroppo, la storia orale si perde, per cui sembra che le donne italiane non si siano mai interessate al voto e invece no, c’era una signora che in un paese delle Marche si legò a un lampione proprio per questo. E comunque ci furono quelle dodici maestre sconosciute che nel 1906, per un anno, furono elettrici a pieno titolo, cioè se cadeva il governo avrebbero votato, e invece il governo non cadde e poi la corte di cassazione disse no, abbiamo scherzato e niente, le italiane dovettero aspettare altri 40 anni per poter votare. Ma la storia della nonna della giornalista o delle dodici maestre sono storie che fanno bene al cuore, perché dimostrano che non è vero che noi siamo sempre state, come dicevano i tedeschi: bambini, chiesa e cucina, siamo state anche altro, delle persone con desideri e ambizioni. Persone, ecco.
5. Si ricorda quando ha capito e realmente sentito di essere una donna? Quando ha iniziato a far attenzione alla desinenza femminile?
Penso quando è nato mio fratello, per un motivo molto semplice… Noi allora stavamo in Sicilia, che è anche la terra di mio padre (mia madre invece era di Firenze), e quando è nato mio fratello ho sentito che in qualche modo era lui l’orgoglio familiare, il proseguimento della famiglia: la famiglia proseguiva con lui, non con me. É un ricordo forte, anche se strano, perché ero molto piccola. Abitavamo con la nonna paterna che era una vera matriarca siciliana, con tutti i difetti che Sciascia elenca delle matriarche siciliane, e il figlio o nipote maschio era, inevitabilmente, il ‘centro’ della casa. Ma come ho capito che essere di sesso femminile mi relegava ai margini della casa, per l’appunto? Ora che mi ci fai pensare, credo che sia stato perché mia madre mi diceva sempre: non credere di essere di meno perché sei donna. Devo a mia madre l’orgoglio di essere donna, mia madre era una donna emancipata per l’epoca, laureata, con una grandissima passione per la poesia, che mi ha insegnato ad amare. Secondo me lei sentiva molto, soprattutto quando è nato mio fratello, il pericolo che io potessi introiettare un sentimento di inferiorità, allora mi ha messo in allerta e questa è una cosa di cui le sono molto riconoscente, questo fatto di dire: non perché sei una bambina sei da meno dei tuoi compagni maschi. Era molto attenta a questo, anche se invece tutto l’ambiente intorno congiurava a smentirla: sei una bambina? e allora non devi scalmanarti giocando, non devi giocare con cose inappropriate, ma con le bambole, che io infatti detestavo. Tranne una, di pezza, povera, che era l’unica con cui ho giocato. Me l’aveva fatta mia madre, per l’appunto, e mi piaceva proprio perché era povera.
Ho letto che lei ha vissuto il ’68 a Bologna.
Ecco, con il ’68 sono ‘nata’ politicamente. Ma è allora che ho capito che non bastava fare il ’68, bisognava fare il femminismo. L’ho capito proprio lì. Ho scritto una volta che per i miei compagni il ’68 fu, tra l’altro, una rivolta contro i padri, ma per noi fu anche una rivolta contro i fratelli, quei fratelli che volevano relegarci nel ruolo di angelo del ciclostile. E gli angeli del ciclostile si ribellarono. Il femminismo, almeno per me, è cominciato proprio con questo scatto di orgoglio: non volevo essere l’angelo del ciclostile.
Ed è stata una rivolta anche contro delle madri, diverse dalla sua che esercitavano
Le madri sono molto importanti, perché le madri che si fanno secondine delle figlie sono, al tempo stesso, paladine del patriarcato, e questo significa negare alle proprie figlie, ma anche a sé stesse, la possibilità della libertà. É per questo che sono comprensiva nei loro confronti. Mi spiego: nella ‘briganta’, Cosimo, il fratello di Margherita, è protettivo ma anche autoritario (o vorrebbe esserlo) e dunque patriarcale, ma è logico che sia così, il patriarcato per lui è vantaggioso. Le donne che si fanno secondine delle altre donne e custodi dei valori del patriarcato, in realtà non ne traggono nessun vantaggio, quindi sono delle vittime anche loro. Potremmo dire, riprendendo il racconto della Banti, che Cosimo non muore, ma le secondine sì, loro muoiono. Ecco perché sono indulgente verso le secondine. Inoltre, penso che basti poco perché anche loro possano aprire le porte della prigione che hanno amorevolmente costruito attorno alle figlie e a sé stesse.
6. Margherita può essere definito un personaggio queer? Questo termine, che fa parte di un lessico nuovo per tanti, già interiorizzato ed esperito da altri.
Non credo che si possano utilizzare queste categorie troppo contemporanee, non lo so, dipende da cosa intendiamo. Queer vuol dire tante cose, troppe cose, bisogna in qualche modo alleggerire, sfrondare un po’ questa complessità di significati se la vogliamo applicare ad un personaggio del passato. Margherita sicuramente è un personaggio ambiguo dal punto di vista di genere. Questo vuol dire anche queer? Non lo so, perché mi riesce difficile utilizzare delle categorie così moderne per un personaggio così antico.
È una donna che ama travestirsi, ma il suo travestimento ha lo stesso significato che può avere oggi per una persona che vive in piena modernità? È complicato dirlo. Secondo me non c’è una risposta, le donne ribelli sono sempre esistite, forse il queer è sempre esistito, ma con sfumature (e conseguenze nella vita pratica) differenti. Ci sono comportamenti (e sentimenti) antichi che un tempo erano visti a malapena, oggi li vediamo bene e cerchiamo di classificarli (fin troppo, a mio parere), però sono comportamenti, desideri, modalità di essere che sono sempre esistite. Mi sembra che a volte amiamo troppo le etichette e allora forse bisogna scomporre le etichette. Sì, Margherita ha desideri ambigui, ama travestirsi, sono caratteristiche reali, non ho preso un personaggio queer scagliandolo nel passato: la verità è che nel passato c’erano persone così, che avevano sentimenti e comportamenti altalenanti. Possiamo dire che fossero queer? Forse. Dipende da cosa noi intendiamo per queer. Ma il queer riassume in sé troppe cose che a volte significano cose diverse, quindi una nominazione non è una significazione. Insomma, sono incerta se è giusto dare un nome così moderno ad un qualcosa che ha un significato così antico.
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